domenica 21 dicembre 2008

LOVELETTERS IN THE SAND - PARTE TERZA (LILAC WINE)

Se mi leggete con una certa assiduità, saprete che ho smesso di fumare, sarete inoltre al corrente che l'ultimo periodo per me è stato abbastanza pesante.

Tanto da cominciare a pensare che fumare faccia bene al cuore, intorpidendolo.

Non credevo che questo post, potesse arrivare alla sua terza puntata, l’ultima.
Ultimamente una persona mi aveva chiesto se ci sarebbe stato un seguito, io prontamente le avevo risposto che, il mancato incontro, aveva precluso qualsiasi altra puntata, riflessione.
Ma certi eventi non puoi determinarli, arrivano e basta.

CIN!!!

Ieri sono riuscito finalmente a mettere in fila tutto quello che mi è accaduto, a dargli un senso, una forma.
E' così bello avere tutto chiaro, anche se solo per un’istante.

Le schizofrenie degli ultimi giorni, stranamente già da ieri mattina sembravano un ricordo, tanto da lasciarmi libera la mente e consentirmi di lavorare in pace.
Intanto attendevo il pomeriggio che avrebbe previsto acquisti assieme a mio fratello.
P. per me è l’esempio di come le cose possono cambiare.
Dopo anni di pareti invalicabili abbiamo cominciato a conoscerci e ad apprezzarci.
Non passiamo molto tempo assieme, ma è tempo di gran qualità.

"Stai tranquillo Alberto", mi dicevo, mentre passavamo da un'osteria a un'altra.
Era una giornata dedicata agli acquisti, certo, ma a Treviso è difficile schivare tutte le cantinette disseminate tra un negozio e un'altro.
L'unico desiderio era quello di non pensare, non soffermarmi su quello che è successo nell'ultimo mese, sarei andato in sovraccarico, non avrei trovato il capo della matassa.

Entrare all’interno dell’osteria gestita da S. e suo marito è stato stranamente più pesante del solito.

Il desiderio di sentirla era stato forte nell'ultimo periodo, i segnali per incontrarci e l'impossibilità di rendere questo evento reale, avevano pesantemente minato il mio sistema nervoso.

Per l’ennesima volta ho varcato quella soglia senza trovarla dietro al banco.
Poco male, diamo inizio alla danza dei calici, con in bocca il sapore forte del sangue della mia terra e le solite chiacchiere da bar.
Nel mezzo di un tango di cabernet la vedo entrare.
Gelo, freddo, ghiaccio.

Tutto mi sarei aspettato, ma non una sensazione del genere.
Nessun dialogo, nessuno scambio di sguardi.
Una continua fuga, una continua sua fuga.

Il viaggio di ritorno l’ho fatto piangendo.
Solo nella mia macchina piangevo tutte le lacrime che non ho mai versato negli ultimi dieci anni.

Piangevo perché, in un istante, ciò che per anni avevo trasfigurato, si è trasformato in polvere.
Piangevo perché in un istante mi è giunta tutta la realtà che avevo nascosto, procrastinato, mascherato e sotterrato sotto migliaia di tappeti.
Piangevo perché gli appuntamenti con la realtà non puoi traslarli di giorno in giorno, sperando che la realtà non giunga mai.
Piangevo perché per anni mi sono aggrappato con unghie e denti al passato, impiegando una quantità infinita di energie, con l’unico risultato di trasformare in spazzatura tutto ciò che mi accadeva.
Tutto per un’immagine.
Questa immagine è svanita quando, con l’ultimo sorso di vino violaceo, il suo volto è apparso attraverso il fondo del calice.

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Ascoltando:
Jeff Buckley, Grace, 1994
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mercoledì 17 dicembre 2008

HAVE A CIGAR

Sono passati quindici anni da quando, con i miei due fidi compari, mi infilai all'interno dell'ennesima festa di compleanno di sconosciuti.

In questo particolare caso, ci trovammo nel parco della casa di una ragazza, il cui volto mi rimase stampato in viso.
Non era particolarmente interessante, probabilmente non ci parlai mai assieme, ma il suo diciottesimo compleanno coincise con la mia prima sigaretta.

I miei amici, dei contemporanei gatto e la volpe, con la complicità però dell'uva, tentarono con successo la loro opera di persuasione.

Non ricordo bene la sensazione che mi lasciò in bocca, nella gola, nella mente.
Sono sicuro però che il giorno dopo ero già dal tabacchino ad acquistare un pacchetto di bionde.

Quindici anni di sigarette di tutti i tipi: light o senza filtro, biscottate o deteinate, corrette e scorrette, accompagnate da sbronze colossali o pranzi microbiotici, fumate dopo culmini d'amore e baratri d'odio.

Pochi giorni fa sono entrato in libreria ad acquistare uno dei due libri che mi stuzzicano da più da tempo, placando per un po' la mia sete.
Mentre "Dianetics" di Hubbard dovrà aspettare, "The easy way to stop smoking" di Allen Carr è stata una vera e propria rivelazione.

Le pagine scorrevano, io continuavo a fumare com'era consigliato nel testo.
Leggevo quando mi mettevo a letto, spesso dopo mezzanotte e a volte, soprattutto nel weekend, anche dopo le due.

Tutto d'un fiato o quasi, ironico, no?

A mano a mano che procedevo nella lettura, non riuscivo a capire in cosa consistesse il segreto di questo genio del marketing, qual'era la ricetta che lo aveva reso miliardario.

Vi ricordo che non avevo acquistato il libro per smettere di fumare, ma per curiosità.

Poi l'ultimo capitolo.

Prima di leggerlo sono andato in sala a fumarmi una paglia del cammello, relax, nannabobòtantenannealberto.

Il giorno dopo la mattinata è trascorsa senza il desiderio, anche se non posso dire che i successivi dieci giorni siano stati tutti semplici.

Non avevo mai considerato la sigaretta come un elemento così inscindibile da me, ma più passano le giornate e più penso che questa astinenza abbia una radice quasi sentimentale.

Passano i giorni, i fine settimana, i momenti con gli amici e ti accorgi che stai facendo tutto senza chi o cosa ti ha accompagnato in tutti quei frammenti di vita.

Sai solo che, se passerai incolume quel preciso istante, quando ti si ripresenterà non te ne accorgerai più.

Non so precisamente perché abbia intrapreso questo percorso solo ora, forse ne sentivo il bisogno, forse smettere di fumare può far parte delle mie ultime riflessioni, sulle forti sensazioni di assenza e quelle impercettibili di presenza.

Ora mi sento libero e ricettivo, con la mente aperta e svincolato dalla moltitudine di futili dubbi che costellavano le mie giornate.

E' decisamente bello, a volte, essere così curiosi.

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Ascoltando:
Pink Floyd, Wish you were here, 1975
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lunedì 17 novembre 2008

(NICE DREAM)

Certe programmazioni serali sono al limite della decenza, ma alcune volte la nostra sensibilità può trasformare il fango in Nutella.
Nella puntata della “pregiata” trasmissione 'Chi l'ha visto' della settimana scorsa, durante la quale ho potuto fumarmi una sigaretta liberando completamente la mente, era illustrata una storia alquanto patetica.
Da anni in Italia, non chiedetemi né dove né la provincia, vive un extracomunitario il quale non ricorda quasi nulla del suo passato.

Ha solo dei flashback nei quali rimembra delle percosse, maltrattamenti, ma il tutto è nebuloso...

Ovviamente questo tipo di messe in onda non sono pensate per potercele sorbire solo nel nostro belpaese, quindi ho potuto scoprire, con mio sommo rammarico, che il format è presente anche in altre sventurate nazioni.

Così il caso di una madre che vive in qualche paese dell'est Europa (anche qui non chiedetemi quale, non potete pretendere troppo) che ha perso il figlio da circa quarant'anni è stato associato a quello del nostro connazionale uomo senza passato.

Detto fatto, organizzato volo per l'anziana signora, direzione Roma.

L'incontro è stata una delle cose più penose che mi è capitato di vedere in televisione, questi due individui cercavano da anni di riempire una voragine dentro di se, l'abbraccio e le lacrime li avevano già saldati per l'eternità, anche senza sapere se realmente erano parenti.

Durante la chiacchierata che stavano facendo di fronte a un caffè è arrivato il responso dell'analisi del DNA: nessuna corrispondenza genetica.

Lo so, un'analisi preventiva avrebbe risparmiato pianti, ma avrebbe pregiudicato un'ora di trasmissione e il relativo odiens (?).

A me è venuto un dubbio.

Anche noi siamo in cerca di una persona che, nel caso non debba colmare dei vuoti, comunque ci completa, anime in pena che trovano pace nell’amare.

Se fosse possibile un test preventivo, che ci consenta di venire a conoscenza se chi ci sta di fronte o chi ci piace, è potenzialmente chi stiamo cercando, insomma la persona giusta, voi lo fareste?
Oppure preferireste vivervi la vostra trasmissione con sigle di inizio, fine, fine prima parte e Mastrota con le pentole e i materassi?

Io preferirei viverla.

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Ascoltando:
Radiohead, The Bends, 1995
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domenica 9 novembre 2008

LOVELETTERS IN THE SAND PARTE 2 (IL TIMIDO UBRIACO)

Probabilmente è vero, nell'ultimo periodo avevo cominciato a confidare un po' troppo nel destino, nel fato.

Il vento non ti sussurra il percorso da intraprendere, può soffiare così forte da trascinarti in una direzione, ma spetta sempre a te decidere.

Sono state le coincidenze di cui parlavo nel post precedente, non ho altre spiegazioni.

Le favole sono come i sogni, possono venirti raccontate, puoi narrarle, ma restano sempre personali.
Avulse da qualsiasi sistema descrittivo.

Non possiamo neanche pensare che tali distorsioni della vita reale possano essere vissute da una collettività.
Tanto meno in coppia.
Un punto di vista è unico.
Gli occhi di due persone non possono trovarsi nello stesso identico punto, nello stesso momento, è un impedimento fisico, non filosofico.

Dimostrazione per assurdo.

Sono abbastanza convinto che le storie d'amore non abbiano una fine, questo perché continuiamo a viverle dentro di noi, egoisticamente.

Si tagliano i legami, scompare quel turbinio di informazioni, parole scritte, dette e comincia un percorso interno.
Più pericoloso. Silenzioso.

Chissà che cosa sarebbe successo se...e se…porte scorrevoli di metropolitane.

La realtà è una sola, unica, singola.

Appena cerchiamo di raccontarla la deformiamo, la distorciamo, come specchi concavi, convessi.

Riflettiamo male, soprattutto quando si parla d'amore.

L'incontro con S. non c'è stato, una serie di eventi ha impedito di incontrarci.
La serie di crucci, turbe e dubbi che aveva accompagnato la data del suo matrimonio si era ripetuta quasi un mese fa.

Andare o non andare?

Sei anni (?) or sono ero indeciso se trasformarmi in un "timido ubriaco".
Questa volta, anche se mi è stato impedito di decidere, avevo già preso altri impegni, non mi era capitato mai, sino ad oggi, di decidere se non a un millimetro dal bivio.

Volpe e uva?

No, la struttura dei castelli in aria, per quanto possa essere solida, poggia su un terreno fatto di nuvole.

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Ascoltando:
Max Gazzé, Max Gazzé, 2000
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mercoledì 29 ottobre 2008

LOVELETTERS IN THE SAND

Mi è sempre piaciuto questo brano, ero piccolo e posavo la puntina del giradischi sul consunto vinile di casa.
La voce di Pat Boone risuonava nel soggiorno, cantando un elogio dell’effimero scrivere d’amore.

Le lettere d'amore sentono pesantemente il passare del tempo, degli eventi, fotografano dei momenti sottili come carta velina.

Ne ho scritte poche nella mia vita, ma quelle che ho scritto, erano rigate dalle mie lacrime.

Ultimamente una serie di coincidenze, pesantemente inspiegabili, mi sta facendo riflettere su una storia d'amore del passato.

Carboni diceva che le storie d'amore non finiscono mai.
A volte le canzoni più semplici sono le più efficaci.

C'è una persona a cui ho scritto molto, alcune lettere sono giunte a lei, altre sono rimaste qui, nei cassetti.

Talvolta penso che non ci sia nulla che io faccia, che pensi, ancora oggi, che non abbia traccia di lei.

Non è un pensiero fisso, né un’ossessione.

Sono anni che non la vedo, forse sta tutto qui il desiderio di sentirla, di parlarle.
Quando mi capita di rifletterci, sognante o illuso, segretamente credo che anche lei mi stia pensando.

A breve avrò l'occasione di poterla incontrare senza impedimenti di sorta, senza i rispettivi partners, senza figure del passato che potrebbero trasformare questo incontro in una patetica farsa.

Sono giorni che ragiono, rimugino, rifletto sul da farsi.

Non sto cercando nulla, solo di portare alla realtà una storia che oramai è solo nei ricordi.

La mente a volte fa brutti scherzi.
Comincia a rimescolare le carte, finché non ci si rende più conto se ciò che abbiamo vissuto sia stato reale o è tutto idealizzato.

Ho paura.
Ho paura di incontrarla.
Ho paura di incontrarla, trovarmi di fronte a lei e non avere nulla da dirle.

Si spezzerebbe così tutto ciò che ho religiosamente custodito dentro di me.
Una favola.

In una favola c’è bisogno di fare ordine?

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Ascoltando:
AA.VV., Brooklyn la compilation del ponte, 1985
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sabato 18 ottobre 2008

THINK (HORROR VACUI)

Ho sempre pensato che la rete globale fosse uno degli elementi più democratici al mondo, un capolavoro artistico senza corpo, costituito solo di componenti temporanei.
Lo stupore di fronte a questa ottava meraviglia del mondo è che in realtà non esiste.
Fisicamente è costituita da cablature, fibre ottiche, server, personal computer, ma ricondurla a una descrizione materiale ne ucciderebbe la intrinseca poesia.

All’inizio consideravo che internet non fosse un sistema democratico, questo perché era necessario avere delle conoscenze minime di utilizzo del personal computer, nozioni che non avevano tutti, le idee inoltre circolavano per comparti stagni, fatta esclusione per i newsgroup che sono sempre stati un potentissimo veicolo di idee.

Con l’avvento dei social networking, dei blog, di wikipedia sono riuscito a percepirne la completa democrazia.

Oggi tutti sanno utilizzare un personal computer e tutti sono in grado, con pochi click, di esprimere la propria opinione, di discutere e di essere smentiti.

La democrazia della rete è  dimostrata dal fatto che in paesi dove la sovranità popolare è calpestata, ci siano ampie restrizioni che la privano dell’essenza.

Un dubbio mi è sorto in questi giorni, è possibile che la diffusione di questo mezzo stia creando scompensi nelle nazioni, che questa democrazia incontrollata ci faccia perdere in senso del “giusto “ e dello “sbagliato”?

Ho ipotizzato persino che la crisi globale sia frutto della democrazia.

La mancanza di un poter centrale forte o di una “fattoria degli animali” Orwelliana,  partorisce teorie del grande complotto e antiteorie dell’antiteoria, controculture deviate che confluiscono nell’anticultura della cultura.

Follie, vaneggiamenti.

La democrazia, ha ucciso la mia libertà di pensiero.

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Ascoltando:
James Brown, Live at the Apollo, 1963
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martedì 14 ottobre 2008

AUTOBAHN

A volte, anche vagare per luoghi non piacevoli può essere stimolante.
Tutto questo sentire parlare di crisi mi ha fatto ipotizzare un occidente in completa decadenza.
Al peggio non c’è mai fine si dice, così ho provato a fantasticare su ciò che rimarrebbe dell’Italia allo sbando totale.
Una nazione occupata da altre etnie, con gli indigeni ridotti a chiedere l’elemosina ai bordi delle strade, vivere di espedienti per potersi sfamare e nutrire la propria famiglia.

A differenza di altre nazioni, dove lo sviluppo economico ha significato un miglioramento della qualità ambientale, in Italia così non è stato.
L’edificazione priva di pianificazione, i centri commerciali sorti in luoghi aleatori, le strade costruite dove le forze politiche ed economiche spingevano di più, ha generato solo caos.

In ciò che ci circonda non ci sarebbe nessuna traccia del nostro passato benessere, degli anni del miracolo Italiano.

Tutta la futilità di cui ci siamo circondati è deperibile, impalpabile, sottile e senza fondamenta.

Ogni grande civiltà ha lasciato dietro di se monumenti, grandi costruzioni, esempi di buon costruire.
Di civiltà.

Viaggiando sulle nostre strade ho trovato solo degrado intervallato da qualche sporadico esempio di amore per l’estetica.
Rari segnali per i posteri.

L’unica regione dove ho constatato amore per il costruire, armonia delle città e consapevolezza di ciò che è importante per vivere bene, è la Toscana.

In questa regione il territorio è stato preservato e le nuove edificazioni sono state pensate in armonia con esso.
L’industrializzazione selvaggia del nord, i palazzinari del centro Italia e l’abusivismo del sud non hanno toccato questo paradiso, non lo hanno trasfigurato in una giungla di stabilimenti vuoti, sgraziati e decadenti.

Piccionaie dove la gente non merita di vivere.

Non credo che sia una mia deformazione professionale, un frutto del mio percorso didattico.
Il progresso delle scoperte scientifiche e tecnologiche dovrebbe camminare mano nella mano con il decoro delle città.

Decoro che non riesco più a vedere.

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Ascoltando:
Kraftwerk, Autobahn, 1974
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sabato 11 ottobre 2008

GONE TO EARTH

Pochi giorni fa, discutendo con un mio collega riguardo le cure sul cancro, ero come al solito a fare la parte dell’avvocato del diavolo.
Lui portava la sua esperienza, mentre io ponevo dubbi assimilabili alle teorie sulla cospirazione, sull’industria farmaceutica, su chi si arricchisce con i malati terminali.
Mi ha decisamente colpito la sua conclusione che verteva sulla bontà della gente.

Io non penso che la collettività sia buona.

Immaginando il mondo come un sistema chiuso, dotato di forze interne che si svincolano da agenti esterni, credo che tutta l’energia che si spende tenda più al male che al bene.

Una mefistofelica entropia.

L’uomo di per sé è un organismo vivente che tende a sopraffare il prossimo, ad eliminare tutto ciò possa minacciare la sua idea di libertà.

All’ultima biennale di Architettura di Venezia, titolata “Architecture Beyond Building”, erano presentate delle città utopiche.
Metropoli pensate come edifici inseriti nel verde, dove l’uomo e gli animali cercano, a mio parere inutilmente, di convivere in una foresta di cemento e vegetazione selvaggia.

In qualsiasi micro comunità, il più cattivo, colui che impone le sue idee con la forza, lo “stronzo” insomma, prevale sul resto della società.
Sono arrivato a pensare che non è lo stress a generare persone dal carattere intrattabile, ma sono le persone intrattabili a scalare le vette.

Il mondo tende al male semplicemente perché gli esempi di rettitudine, ci sono stati sempre imposti con la forza.
Il nostro accettare sommessamente tali imposizioni, è stato sempre frutto dell’ignoranza, del terrore di una scomunica che sarebbe equivalsa all’esclusione dalla stessa società.

Il bene è un’imposizione, non una scelta naturale, istintiva.

Le domande che ci poniamo ogni giorno, i dubbi su ogni notizia che trasmettono in televisione non sono quindi frutto di psicosi, di “grillismi” o di timori da cospirazione.

Sono semplicemente frammenti del nostro istinto di sopravvivenza, annientato da anni di benessere.

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Ascoltando:
David Sylvian, Gone to Earth, 1986
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giovedì 25 settembre 2008

LAND'S END (SINELINE)

L'idea di un mondo determinato, racchiudibile all'interno di limiti definiti, mi ha da sempre incuriosito.
Il nostro modo di rappresentare gli oggetti, secondo un punto di vista antropocentrico, prevede da tempo l’utilizzo del concetto di “infinito”.

Le linee che convergono in uno o più punti di fuga è squisitamente occidentale, si possono trovare infatti esempi di prospettiva anche in alcuni edifici a Pompei.
In oriente era tutto più semplice, enormi rotoli venivano stesi raffigurando infiniti orizzonti dove le persone avevano senso di esistere perché “poggiate” su di una linea, un po’ come accade  nella Colonna Traiana.

Per uno come me la fine arriva sempre, o quasi, subito.

Da piccolo avevo cominciato a scrivere al contrario, per firmare i miei disegni, partendo dall’angolo in basso a destra del foglio.
Dal limite ultimo.

Un mancino riesce normalmente a mimetizzarsi in mezzo alla società, il suo handicap è a volte impercettibile, naturalmente non rimane inosservato di fronte ai suoi simili.

Il ritrovarmi però a sfogliare le riviste tutte le volte dalla fine, a guardare prima la pagina 46, poi Bartezzaghi e poi vedere comparire la dicitura “la rivista che vanta innumerevoli tentativi di imitazione” è quanto meno curioso.

Si, perché noi “scorretti”, sfogliamo tutta la carta stampata con il pollice della mano sinistra.

Ogni volta che guardo un libro preso da uno scaffale, lo scorro al contrario, distogliendo lo sguardo all’inizio, per sottrarmi al misterioso finale.
A seguito arrivano le prime parole, gli occhi si muovono mentre, in un gesto acrobatico, si compie “il passaggio di mano”.

Quando hai ogni volta la fine di fronte, tutto ti sembra così ordinato.
La tua è una percezione distorta della realtà, ti senti un po’ come Max Tivoli.

Malinconico, con lo sguardo spento, pieno di rimpianti, ma speranzoso.

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Ascoltando:
Van der Graaf Generator, Pawn Hearts, 1971
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sabato 13 settembre 2008

POLVERE

E' stata la visione delle splendide opere del fotografo goriziano Kusterle (grazie PV della segnalazione), il motivo che mi ha spinto a scrivere su questo tema.
Le definisco opere perché mi sembra riduttivo parlare di ritratti, fotografie.

Il solito pretesto del tema è il titolo di una canzone, un brano di Ruggeri che ho iniziato ad amare sin da piccolo, assieme a "Il mare d'inverno".

Spesso passo giornate chiuso in ufficio, riparato dall'esterno da spesse finestre ermetiche, respirando la brezza che spira dal climatizzatore.

A volte penso che il  mondo sterilizzato in cui vive Michael Jackson, più che una follia, sia semplicemente l'opera di un visionario.
La chirurgia estetica, lo sbiancamento della pelle, la camera iperbarica in cui dorme sembrano più che mai attuali a distanza di vent'anni.

Per la nostra cultura estetica, gli oggetti su cui si è posata la patina del tempo, i mobili poveri e vecchi ruderi, recuperano valore solo perché consunti, non perché abbiano una valenza artistica.

Ogni giorno mi ritrovo costretto a sopportare con un continuo rumore di fondo, un brusio visivo.
Arte digitale artificialmente sporcata.

Le fotografie che ho visto mi hanno ricordato i pezzi di legno che trovavo da piccolo sul bagnasciuga, restituiti dal mare, consumati dalla salsedine e dalla sabbia.

Siamo affascinati dal passare del tempo e dagli oggetti che esso ci regala, anche se sono frutto di un solo granello di polvere.

Forse sono solo perle per i porci.

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Ascoltando:
Enrico Ruggeri, Polvere, 1999
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martedì 26 agosto 2008

BITTER END

Quando non ho tempo agisco.
Quando ho tempo rifletto e agisco.
Quando ho molto tempo, rifletto e non agisco.

Certi viaggi solitari in automobile per la campagna veneta, a volte sono deleteri.
I pensieri si sovrappongono.
Soprattutto se sei in vacanza e hai tutto il tempo che la routine quotidiana ti mangia.

Momo di Michael Ende fuggiva dagli uomini grigi che perlustravano il mondo in cerca di tempo.
Rubavano il tempo.

Per capire la lentezza era costretta a seguire una tartaruga, non quella Huysmans.
Lenta sì, ma non a ritroso.

Mi servirebbe molto tempo per capire se il disegno che sto tracciando, segue le rigorose e magnifiche leggi della pittura ad acquerello.

Nell'acquerello si continua a tracciare segni, prima delicati e diffusi, per poi arrivare a tratti scuri.
L'agire su alcune parti dell'opera e gettarsi su altre permette alle figure di delinearsi, di stagliarsi sulla superficie.

Non c'è alcun modo di poter tornare indietro, l'errore si deve rimediare subito, altrimenti la carta assorbe velocemente.

E' vietato l'uso del bianco per aggiustare, trasfigurerebbe la leggerezza dell'acqua in un pastone buono per un trogolo.

C'è un punto in cui si arriva alla saturazione, ci si rende conto che l'opera è finita come quando si guarda uno spaghetto e si capisce che è cotto.

E non serve aggiungere altro.

L'ultimo gesto, a volte, fa parte di un amaro finale.

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Ascoltando:
Roxy Music, Roxy Music, 1972
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ARIA DI RIVOLUZIONE

E' un periodo strano questo il mio.
Ho sempre amato stare tra la gente e parlare, carpirne le emozioni, le paure, le speranze e le sensazioni che prova.

Forse è stato mio padre che, attraverso le sue parole e i suoi racconti, mi ha trasmesso questa indole indagatrice.
Da buon responsabile del personale e cacciatore di teste, è stato sempre un buon osservatore.

A differenza dei suoi parametri, secondo me per poter studiare le persone, non basta una buona capacità visiva.

Per entrare dentro un intricato groviglio di reti emozionali è necessario soffermarsi su impercettibili movimenti delle mani, di come gli occhi roteano mentre si sostiene una conversazione.
I piedi mentre che si contraggono involontariamente mentre si esprime un'opinione.

Quello che sento in particolare da qualche mese a questa parte, è rabbia.
Odio.

Odio verso le istituzioni, rabbia verso chi ci rappresenta seduto su di una poltrona di pelle umana.

La nostra pelle.

Sinceramente non so è a causa della pubblicazione del libro "La casta", o delle battaglie contro i mulini a vento di Beppe Grillo, ma questa brezza leggera non mi sta per niente rinfrescando.
Come un caldo vento proveniente dal deserto, mi secca.

Studenti, lavoratori e pensionati mi parlano di insurrezione.
Gli stranieri che non hanno né lavoro né integrazione si prendono già con la forza ciò che non gli spetta.

Forse ci sono tanti modi di poterci slegare da questa empasse, io sinceramente non vedo un'alba per questo sistema politico.

Eppure il vento soffia ancora.
E' la nostra immagine di democrazia, più forte della loro.

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Ascoltando:
Franco Battiato, Sulle corde di Aries, 1973
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venerdì 8 agosto 2008

SI E’ SPENTO IL SOLE

Non sono uno sportivo, se devo essere sincero non mi piace neanche guardarlo in televisione.

Quest'anno il tema delle Olimpiadi era sulla bocca di tutti.
Ci sono i problemi del Tibet, dei diritti umani calpestati nonché l'inquinamento insostenibile.
Nessun accenno allo sport.

Nella mia ignoranza riguardo i giochi, frutto anche della solita disinformazione alla quale cerco giornalmente di sottrarmi, ho deciso di assaporare l'arte elegante che sapevo mi avrebbero regalato i nostri cari amici pechinesi.

Un'incredibile escalation di frammenti di teatro, arte circense, musica, ripercorrendo la storia del paese.

Un turbinio di colori e luci.
Fiamme nella notte.

La notte.

Di giorno la cosa è ben diversa.

A Pechino si è spento il sole.
Le immagini dei giorno scorsi mostravano una città colpita da una nebbia perenne che impedisce ai raggi dell'astro di raggiungere direttamente la città.

La questione dell'inquinamento per me è marginale, almeno in questo frangente.

Nei suoi scritti, Le Corbusier nobilitava i semplici silos ad esempi di architettura, quest'ultima era descritta come il sapiente gioco dei volumi assemblati nella luce.

Ecco il mio stupore.

Uno stupore ignorante avulso dai fenomeni di geopolitica e dell'inquinamento planetario.

Mi colpiscono le immagini.

Se diventano offuscate, nebulose, opache, completamente senza contrasto, che cosa può colpire la nostra attenzione, cosa può toccare le nostre corde?

Silenzio.

Un'esistenza cieca e silenziosa, vissuta sotto una coperta di polveri sottili.

Si è spento il sole, chi l'ha spento?

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Ascoltando:
Vinicio Capossela, L'Indispensabile, 2003
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lunedì 4 agosto 2008

GIANT STEPS

Sono stato sempre più affascinato dalla ricerca che dall'informazione, forse perché, da inguaribile sognatore ho preferito sempre gli orizzonti annebbiati alla vivida cronaca.
E' così che mi ronza in testa una sperimentazione che da quarant'anni riesce a divertire i sociologi, categoria di persone che ho sempre invidiato.

La sociologia è una materia così interessante.

Nel 1967 Stanley Milgram, psicologo sociale, mette in atto un esperimento per capire quanto piccolo è il mondo.
Consegna delle buste e delle specie di passaporti a duecento persone, ponendogli come obiettivo di far recapitare la lettera ad una persona in particolare.
Della persona sanno nome, cognome, indirizzo e occupazione.
L'unica difficoltà di questo gioco, è quella che dovranno inviare il materiale a individui che conoscono e che chiamano con il nome di battesimo.
Il passaporto servì per inviare a Milgram i nominativi degli interposti tra il mittente e il destinatario.

Il risultato di questo esperimento fu che con quattro passaggi, quindi sei persone, il messaggio giungeva a destinazione.

Matematici e persone disincantate, calcolatrice alla mano e conti della serva, sostengono che, se ogni persona conosce di media trecento persone, con quattro passaggi e moltiplicando tale valore ogni volta per se stesso, si fa presto ad arrivare alla popolazione mondiale.

Io resto della mia idea, che la teoria dei "sei gradi di separazione" sia allo stesso tempo reale e sognante, avvincente e ostica.
Mi piace che ancora oggi, tramite il mezzo della posta elettronica, si sperimenti ancora per mezzo di persone e non numeri.

La tecnologia fa fare passi da gigante alla ricerca.

Con il naso all'insù, sogno che potrei raggiungere i grandi capi di stato tramite dei miei amici.

Avrei qualcosa da dirgli.

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John Coltrane, Giant Steps, 1959
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martedì 15 luglio 2008

I SHOULD HAVE KNOWN BETTER

A dispetto di ciò che è indicato nel mio profilo sotto la voce "televisione", mi sto completamente disintossicando dai telegiornali.

Per essere più precisi, sono quasi completamente a digiuno anche della carta stampata.
Ogni tanto butto l'occhio sulla cronaca locale, sugli strilloni fuori dalle edicole.

Le voci che percepisco sono un fastidioso stridio, un incontrollato feedback Hendrixiano.

A suo tempo, la pellicola di "Matrix", fu il pretesto per indagare sull'informazione, sulla storia, sulla reale conoscenza dei fatti.
In Italia sono costretto ad accontentarmi della sua versione "Amatriciana".

Predicatori della vera informazione che nascondono scheletri nell'armadio.
Magari invece di essere scheletri sono solo corpi in putrefazione.

Resta il fatto che non mi fido più di nessuno.

Se il vaso era già colmo, la serata di "Studio aperto" dedicata alla povera ragazza uccisa a Lloret de Mar, mi ha completamente aperto gli occhi.

Durante la trasmissione, alle domande delle fameliche giornaliste, l'avvocato ha risposto che:
-lui non sapeva ancora nulla;
-la polizia spagnola non aveva ancora confermato nulla;
-si meravigliava della quantità di informazioni che venivano snocciolate dai telegiornali italiani.

Quindi se:
-la televisione ha ancora bisogno di casi mediatici per coprire le porcherie del governo.
-si riescono a riempire intere nottate televisive con dati incerti, ripetuti in tutte le combinazioni.
-una morte diventa il pretesto per parlare dello sballo dei giovani e delle ore piccole.

Segue che in questo paese non è cambiato nulla dal periodo delle stragi.
L'unica differenza è che oggi basta Corona per distogliere l'attenzione.

Un notevole risparmio di esplosivi.

Oggi il popolo è più bue di quando era analfabeta, e questo governo ce lo meritiamo.
Tutto.

Forse mi procurerò una collezione di Cinegiornali dell'Istituto Luce.

Nel loro surrealismo dittatoriale erano opere d'arte, non propagande ignoranti.
La mia amarezza sta nel fatto che siamo democraticamente controllati da ignoranti senza ritegno.
E che vorrei veramente sapere.
Spulciare tra le ANSA è un lavoro che dovrebbe fare un giornalista.
Non io.

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Ascoltando:
Wire, 154, 1979
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domenica 15 giugno 2008

THE LOVE THIEVES

E' da un po' che non vado a casa di un mio amico, teatro di grandi feste realizzate con poco.
Buon cibo e ottimo vino bastavano a trasformare il suo giardino in un Helzapoppin di sano divertimento.

La cosa che mi colpiva di più, è che la sua abitazione era sempre aperta.

Non intendo aperta agli amici o aperta alle persone in difficoltà, era semplicemente, fisicamente, sempre aperta.

Una tradizione storica, quella di lasciare incustoditi i nostri pochi averi, incolumi al possibile ingresso di ladri.

Con Paolo, mi ricordo, come schegge impazzite saettavamo da un pub ad una discoteca per notti intere, lasciando sempre l'automobile aperta.
Niente antifurti satellitari, sirene, avvisi GSM e quant'altro.

Le città tacevano.

Non c'era molto da rubare nell'auto, e nessuno avrebbe voluto impossessarsi di una proprietà di cui non aveva bisogno.

La nostra visione contemporanea di sicurezza, il cui risultato è la nostra reclusione notturna in prigioni sbarrate, non impedisce furti ed efferati omicidi, come quello accaduto a pochi chilometri da casa mia, un anno fa.

Questo perché semplicemente la nostra società classista fomenta la lotta, l'odio di classe, prima ancora di quello razziale.

Ci spinge a desiderare.
I mezzi d'informazione gettano benzina sul fuoco.

Nelle pagine de "Il tallone di ferro" di Jack London, ho trovato la lungimiranza di una scrittore di inizio del secolo scorso che, nel 1907, ipotizzava la sparizione della borghesia e la nascita di una società oligarchica, dipingendola come unico sbocco del sistema capitalistico.

Se il sistema che abbiamo adottato dal dopoguerra ad oggi in Italia sta portando ai suddetti risultati, possiamo asserire che il nostro caro autore di "Zanna Bianca" può essere messo a fianco di Nostradamus.

Abbiamo decisamente fallito.

Non è colpa dell'immigrazione, delle persone disadattate se siamo costretti a rinchiuderci in dei caveau.

Siamo schiavi di un sistema antidemocratico che premia pochi eletti, a prescindere da chi siede in parlamento.

Condannati.
Spinti a desiderare, istigati al furto.

Anche in amore.

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Ascoltando:
Depeche Mode, Ultra, 1997
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mercoledì 4 giugno 2008

JULIA

Questa volta il pretesto del titolo della canzone è effimero, ben più importante è il nome del gruppo.
La mia riflessione parte sui guinzagli e sulla loro lunghezza.
Ogni giorno, la nostra esistenza, è condizionata da decine di cinghie di cuoio che ci strattonano ad ogni movimento.
Alcune, pericolose si dice, sono collegate a collari che stritolano la nostra trachea.
Più cerchiamo di essere indipendenti e più annaspiamo.

Trovo alcuni di questi lacci, necessari.
Leggi inequivocabili che permettono, agli esseri umani, di sopravvivere gomito a gomito.
Giorno dopo giorno.

Altre briglie ce le mettiamo da soli, ogni mattina quando ci alziamo dal letto e immaginiamo che non ci sia via d'uscita.
Fantastichiamo che quello che stiamo facendo nella vita, sia l'unico percorso che ci permette di deambulare in maniera decorosa.
La fase successiva può essere solo quella di cominciare a provare sentimenti nei confronti del nostro padrone.
Colui o colei che, con polso fermo, attraverso gesti decisi manovra il nostro perplesso incedere.

Ho provato collari stretti, lavori alla mercé di padri-padroni, fidanzate possessive che con corregge tarpavano le mie ali, rendendole sottili come carta di riso.

Fortunatamente il dolce torpore del masochismo può essere sostituito dalla brezza di una libertà condizionata.

Pavlov insegnava che, sottomettendo un animale a stimoli condizionati, si poteva ottenere un riflesso condizionato, anche a distanza di anni.

Quando i compromessi nella coppia e nel lavoro, si tramutano in gesti educativi, anche involontari, gli echi si ripercuotono per intervalli lunghissimi.

Come quadrupedi da esperimento, ci potremmo ritrovare a produrre saliva anche solo per un innocuo rumore.

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Ascoltando:
Pavlov's Dog, Pampered Menial, 1974
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domenica 18 maggio 2008

DISINTEGRATION

Ieri sera ho guardato il mio comodino, gremito di tascabili economici, riviste di architettura, magazine musicali e fumetti.
Al centro troneggiava "L'Ulisse", imperiale come la portata principale di una sontuosa cena.

I mezzi di informazione mi hanno ormai abituato a rapidi cambi di inquadratura, servizi veloci e sfiziosi, la stasi annoia, così mi ritrovo la bocca dello stomaco così stretta che sono costretto a rapidi assaggi di tutto.

Anche se le dimensioni del mio ego sono smisurate, non posso sottrarmi alla visione del mondo.
Degli sporadici lunghi aperitivi minano la mia salute, fatti di ciotoline di cous-cous con gamberetti, wurstel con patate, fritturine, persino i toast e i tramezzini li tagliano per renderli più appetibili, in questa logica dello sminuzzare.

Pezzetti di cibo sbriciolati, frammentini di sostanze più o meno caloriche inghiottiti a profusione.

Informazioni parziali e decontestualizzate passano sullo schermo, prive del peso che dovrebbero avere, loro sono contenti, noi le ingurgiteremo senza alcun problema, prese a piccole dosi così come ci vengono offerte.

Forse, un giorno, riuscirò ad affrontare Joyce come ogni tanto affronto uno stinco di maiale, un pranzo a base di lesso, una costata da un chilo.

Come una regale pietanza me lo gusterò.

Avulso da questo vivere sociale all'insegna dell'happy hour.
Scevro dai condizionamenti di questa nouvelle cuisine dell'informare e intrattenere.

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Ascoltando:
The Cure, Disintegration, 1989
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sabato 19 aprile 2008

Fuochi nella notte (di San Giovanni) - seconda parte = The Robots

L'Unione Europea, non sapendo dove spendere le proprie "fortune", finanzierà un progetto da dieci milioni di euro, denominato Lirec (Living with robots and interacting companions).
Dieci studiosi appartenenti a sette paesi della comunità, per quattro anni condurranno ricerche per istruire partner interattivi di silicio.
I professori e docenti, tra cui Peter McOwan, si domandano che tipo di peculiarità debba avere un compagno per essere appetibile da noi.
Si presume che una persona estroversa desidererà un robot dall'aspetto umanoide, mentre quelli più timidi si doteranno di macchine più lontane dalle nostre sembianze.

Potremo così modellare a nostro piacimento il nostro robot per poter vivere meglio e con meno assilli.
Il nostro amico si preoccuperà di avvisarci se il frigo è vuoto, se il nonno ha preso le pillole, se i nostri figli hanno fatto i compiti.
Immagino che questo sia il "lapis exilis" dell'egocentrismo.
Finalmente potremo (con innumerevole dispendio di energie) "educare" la nostra convivente.
Trasformarla nell'idea di partner che abbiamo stampato in testa.
Ci resta sederci e osservare il risultato di queste operazioni, a mio avviso inutili.
Sempre che queste "fantastiche" scoperte abbiano a breve un seguito.
La tecnologia fa passi da gigante, noi piccoli esseri ci sediamo sulle sue spalle e ci fregiamo di una statura che in realtà non abbiamo.

Probabilmente un domani, sfiniti da innumerevoli serie di ordini per plasmare un essere fatto di fusibili, continueremo alla sera a riempire topless bar e squallidi night.

In cerca di ciò che, durante il giorno, guardiamo con nausea da ipocriti.

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Ascoltando:
Kraftwerk, The Man-Machine, 1978
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domenica 30 marzo 2008

FUOCHI NELLA NOTTE (DI SAN GIOVANNI)

La mia formazione universitaria e il mio lavoro, hanno portato il mio senso dell’equilibrio ad uno stadio innaturale.

Un progetto convoglia delle energie per la realizzazione di un qualcosa di stabile e immobile.
Appunto, immobile.

Nella vita reale le cose non vanno mica così.

Me ne sono ricordato l’estate scorsa.

Il passato insegna che io non imparo dal passato.

Una passione travolgente e (in quanto tale) breve, mi aveva fatto credere che sarebbero state le piccole virate sul mio comportamento, a rendere il rapporto vivibile.
Intuivo che da sola, la relazione, non sarebbe durata.
Forse era l’unica sensazione razionale che mi rimaneva.

Quella calda giornata, sulla panchina dei Giardini della Biennale, con il legno che si stava ancora asciugando dopo il temporale estivo, ho capito che per sperare in una lunga durata, un rapporto si deve avvalere del minor sforzo possibile.

Ogni azione, qualsiasi parola non detta, qualunque omissione e qualsivoglia tentativo di sovrapporre il proprio ideale di su chi ci sta di fronte, è energia dispersa per imbastire, a punti lunghissimi, un equilibrio precario.

Entropia regalata al sistema.

Meglio sarebbe conservare la vitalità per virate, voli e imprevisti, che continuare a disperdere nell’aere calorie per accontentarsi di rimanere, pateticamente, in piedi.

Lascio che le cose vadano come devono andare.
Ma non mi portino altrove.

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Ascoltando:
Consorzio Suonatori Indipendenti, Ko de mondo, 1994
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venerdì 21 marzo 2008

MUSIC LOVER

La visione questa sera del film "Woodstock" (ho sinceramente perso il conto delle volte), mi ha fatto riflettere al modo di fruire la musica live oggi.
A parte i concetti di uso indiscriminato di droghe, più o meno leggere, la condivisione di tutto e la libertà, mi ha colpito l’esecuzione.
Gli artisti che si esibivano sul palco erano semplicemente veicolo di emozioni, il significato di esecuzione perfetta era lontano anni luce.

Richie Havens è arrivato sul palco con la sua chitarra logora dal suo suonare "a braccio", istintivo e poco attento alla quintessenza.

Il pubblico non si aspettava minimamente la compiuta corrispondenza dei brani contenuti negli album, semplicemente attendeva l’artista e la trasmissione di vibrazioni, qualsiasi fosse il ri-arrangiamento, la revisione, lo stravolgimento del pezzo.

Era un periodo in cui si vendevano molti album, 33 e 45 giri, il musicista poteva permettersi tranquillamente anche di non uscire dallo studio.

L’esibizione live era una scelta, non una necessità.

Ultimamente assisto sempre di più a esibizioni iperprodotte, ricche di basi DAT e sequencer che colmano lacune acustiche.

Un continuo rincorrere l’impossibile.

I Queen, gruppo peraltro che non amo, si esibirono a Wembley semplicemente in quattro.
Erano notoriamente conosciuti per le maniacali sovraincisioni presenti negli album, resero però giustizia ai brani, interpretandoli live da soli.
Un concetto di "vivo" oramai perso.


Figli di musica pretesa oramai come gratuita, ci subiamo concerti stucchevoli e distanti.

Unico sostentamento, di artisti irreali.

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Ascoltando:
AA.VV., Woodstock, 1970
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mercoledì 12 marzo 2008

OLD MAN

Nella maggior parte delle culture  di aggregazione sociale, l’anziano è colui che detiene la saggezza.
Di fronte ai suoi occhi sono scorse molte stagioni, centinaia di foglie sono cadute ai suoi piedi.
Tutta la tribù porta rispetto per il decano, chiede consiglio e si prostra di fronte alle sue decisioni.

Sinceramente non riesco a rapportare a oggi il concetto di vecchiaia, a trasporlo nel contemporaneo.
Probabilmente, nel medioevo, una persona veniva considerata anziana a soli quarant’anni.
Alessandro Magno non compì mai quell’età, ma a sedici anni era al comando dell’impero Macedone, mentre suo padre era impegnato nell’assedio di Bisanzio.

Oggi, se la politica è lo specchio della società, ci ritroviamo di fronte ad un monopolio di attempati.
Settantenni sostenitori del concetto NIMB, incapaci di delegare, che si propongono come unici salvatori di una situazione solo a loro chiara.

Ne ho visti troppi dalle mie parti ragionare in questo modo.
Persone attaccate morbosamente alla "fabbrichetta", incapaci di far svolgere le proprie mansioni a qualsiasi altro essere.
Uomini che sul letto di morte vedono crollare, ai piedi del loro capezzale, le fatiche di una vita.
Individui incapaci di lasciare il proprio posto a chi tocca.
Viviamo in una nazione di persone che non sono in grado di rendersi conto che il tempo scorre, inguaribili adolescenti e malinconici adulti.
Mai che gli uni e gli altri si rendano conto di dover lasciare il passo alle nuove generazioni.

Probabilmente siamo alla deriva perché nessuno ci lascia la possibilità di essere attivi in quello che facciamo.

Nel corso del tempo, l’immagine di anziano che condivide la proprie esperienza, è sostituita da una rappresentazione di un triste avaro.
Nella tomba porterà con se i suoi segreti.

Ricchezza mai condivisa.
Di un vecchio uomo.

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Ascoltando:
Neil Young, Harvest, 1972
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venerdì 22 febbraio 2008

SALTWATER

Dopo il crollo del grande sogno americano, dopo il miraggio del miracolo italiano, i mezzi d'informazione ci stanno bombardando con la chimera del ritorno alle origini.
Terre selvagge, l'isola, la fattoria, la spiaggia, sono segnali di una decadenza mediatica e sociale ormai irrefrenabile.

Stando comodamente seduti su di una poltrona, ci nutriamo di sbobba carica di finzione.

Una raffigurazione idealizzata della sofferenza, degli stenti, dell'arrancare per sopravvivere.

Per quanto cerchino di rendere reali queste sensazioni, sono lontane dalla realtà quanto l'estetica di Policleto.

Non riesco a dare un motivo, a questa guerra contro ciò che ci hanno fatto tanto agognare per cinquant'anni.

Ben altre sono le realtà impervie.
Crude le immagini di un documentario sul Vietnam.
Vivide le fotografie di una monografia sull'africa di Sebastião Salgado.
Brutali le sagome di campani schiacciati dai loro stessi rifiuti.
Acri le sequenze dell'ennesimo pluriomicidio in una scuola.

Le giungle nelle quali si imbattono in molti ognio giorno, sono a volte più pericolose e invivibili dell'Alaska.

Certamente i luoghi, le esigenze, i mezzi e gli obiettivi sono diversi.

La forza come la fede scaturisce nelle circostanze gravose.
La bellezza dei luoghi sta nella capacità di saper leggere ciò che ci circonda.
Non esistono non-luoghi.

...queste sono banalità...

In un sistema normale quello che ho appena scritto funzionerebbe, sarebbe un coming-out per cominciare a combattere, ma
ci stanno uccidendo, piano piano...

...l'elettroenecefalogramma sussulta appena...il cuore giace sopito sotto una coltre di problemi e troppo lavoro...la nostra necessità di realizzarci come individui che uccide la famiglia...una politica gestita da anziani senza orizzonti...

...stanchi, soffochiamo, sognando la casa sulla spiaggia.
Non consci della nostra incapacità di sopravvivere nella civiltà.
Figuriamoci nei pressi delle acque salate.

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Ascoltando:
Beach House, Beach House, 2006
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martedì 5 febbraio 2008

PILOTS

Forse dopo questo post dovrò andare dall'analista.
La curiosità di ciò che un esperto potrebbe rivelarmi, mi attanaglia da tempo, ormai.
Per l'ennesima volta sto pensando alla vita come a una strada.

Ingenuamente, non so cosa significhi.

Forse è perché sono incredibilmente fatalista, forse perché qualche esame di urbanistica mi ha deviato.

Talvolta visualizzo la mia vita con un punto di osservazione collocato all'infinito.
Dall'assonometria di uno sguardo ravvicinato, la vista si trasforma in una prospettiva, poi in una rappresentazione con tre punti di fuga, poi un volo d'uccello.

Il risultato finale è una rappresentazione piatta, senza scorci, distorsioni, una forma simbolica alla Panofsky.

E' poi semplice vedere i tracciati, come si sono incrociati, i lassi di tempo, gli scontri.

Nei voli pindarici della mia mente, di fronte a un martini cocktail e l'amica di una vita, sono invece sceso in picchiata fino a terra.
Parlando di relazioni difficili, ho visualizzato le storie d'amore come una lingua d'asfalto percorso da cartelli.

A qualsiasi velocità percorriamo il nostro tracciato, spesso siamo soli.
Soli in ogni ripensamento, soli nel corso di ogni decisione che riguarda noi e la nostra metà.

L'unica compagnia sono dei cartelli che ci avvisano.

Gli avvisi debuttano in forma di paracarri con le scritte consumate dal tempo, ci passano accanto poi dei cartelli arrugginiti dalle piogge scroscianti.
Bufere d'amore.
Infine cartelli lucidi e smaltati, sempre più grandi.

Talmente enormi che dobbiamo correggere la traiettoria per non sbatterci contro.

Un enorme STOP che ci impone una brusca frenata.

Dovrebbero fare severissimi esami della vista, per chi, presuntuosamente, decide con coraggio di percorrere l'autostrada dell'amore.

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Ascoltando:
Goldfrapp, Felt Mountain, 2000
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domenica 13 gennaio 2008

SILENT SORROW IN EMPTY BOATS

Ogni tanto ripercorro, con i miei pensieri, a quel lungo tragitto in macchina tra Siena e la mia tanto disprezzata provincia Trevigiana.
Non ho mai tanto amato casa mia come durante quella caldissima estate. Sognavo solo le pareti della mia camera.

Soli io e lei.
Un'utilitaria che lentamente percorreva mezzo stivale.
Scorreva dentro solo una fievole musica di sottofondo.
Silenzio.
Un greve silenzio.

Quel giorno ho immaginato che i rapporti si misurassero in base alla quiete.

Come poter sopportare il continuo ciarlare, il frastuono caotico della città, il confronto continuo, la discussione effimera, agognata.
Solo per riempire il vuoto.

Amo il vuoto.

Chi ha paura del silenzio non può definirsi equilibrato.

Così come nel cuore di un foglio bianco ci sono  forme, colori, sensazioni e idee in divenire, dentro un silenzio ci sono riflessioni, contatti e flussi di immagini.

Se per alcuni è difficile vivere il silenzio da eremita, un silenzio leggero e impalpabile vissuto in due, è un'immensa gioia.

Ho visto schiere di coppie sempre esposte, in vista, in gruppo.
Coppie soffocate che relazionavano con altre coppie, che interagivano in continuazione.

Potersi concedere un amplesso di solitudine, un'orgia di silenzi, è un privilegio per pochi.
Innamorati

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Ascoltando:
Genesis, The lamb lies down on Broadway, 1974
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mercoledì 2 gennaio 2008

THE SEED

La pazienza è una dote che non ho sempre avuto.
Una sorta di smania ha accompagnato tutta la mia adolescenza, rendendomi incapace di approfondire qualsiasi argomento.
Per anni ho avuto difficolta' nel rifinire sculture, quadri, concetti e progetti.

Mi ritrovo oggi, complice la deformazione professionale, a dover essere perseverante.
Il processo progettuale e costruttivo necessità di tranquillita' e una infinita calma.

In questo blog, caratterizzato da titoli di canzoni a me care (con spunti d'ascolto degli album che le contengono), spesso ho trattato il tema della velocità.

La rapidità con cui si deve agire nella nostra civiltà contemporanea e' incredibile.
Un minimo errore o esitazione nel decidere, potrebbe determinare un nostro fallimento sociale o lavorativo.

Ogni tanto penso alla mie eta' tanto vituperata, una massa di bamboccioni laureati senza futuro.
Immagino, per contro, i nostri genitori alla nostra età, con problemi per la casa, problemi con i figli, problemi con il salario.
Generazioni di operai divenuti imprenditori.

Forse la fretta che ci circonda influenza le nostre azioni, la nostra incapacità di produrre immagini grandangolari, ci costringe a soffermarci sul dettaglio.
Quando si corre veloci, il campo visivo si riduce notevolmente, ne sanno qualcosa i piloti di automobilismo.

Probabilmente le generazioni che ci hanno preceduto non pensavano di generare il boom economico, ricchezza e prosperita' nel nostro belpaese.
Si erano semplicemente rimboccati le maniche.

Sempre più sovente ci sono persone che rifiutano occupazioni, per via di una lesa dignità economica e sociale.
Vorrei sapere con che dignità rimangono a casa, attoniti, con quel pezzo di carta in mano.

Dobbiamo muoverci, correre, sfrecciare e salire su questa giostra, con la lungimiranza di chi sa che le cose muteranno.
Con l'ignoranza di chi spera che il meglio debba ancora venire.

Mary, mi avevi chiesto i buoni propositi per il nuovo anno.
Aggiungo, oltre allo smettere di fumare, l'intento di avere anche pazienza e continuare a scommettere che le cose possano andare ancora meglio.

Un seme.
In quieto.

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Ascoltando:
Cody ChesnuTT, The headphone masterpiece, 2002
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