venerdì 22 febbraio 2008

SALTWATER

Dopo il crollo del grande sogno americano, dopo il miraggio del miracolo italiano, i mezzi d'informazione ci stanno bombardando con la chimera del ritorno alle origini.
Terre selvagge, l'isola, la fattoria, la spiaggia, sono segnali di una decadenza mediatica e sociale ormai irrefrenabile.

Stando comodamente seduti su di una poltrona, ci nutriamo di sbobba carica di finzione.

Una raffigurazione idealizzata della sofferenza, degli stenti, dell'arrancare per sopravvivere.

Per quanto cerchino di rendere reali queste sensazioni, sono lontane dalla realtà quanto l'estetica di Policleto.

Non riesco a dare un motivo, a questa guerra contro ciò che ci hanno fatto tanto agognare per cinquant'anni.

Ben altre sono le realtà impervie.
Crude le immagini di un documentario sul Vietnam.
Vivide le fotografie di una monografia sull'africa di Sebastião Salgado.
Brutali le sagome di campani schiacciati dai loro stessi rifiuti.
Acri le sequenze dell'ennesimo pluriomicidio in una scuola.

Le giungle nelle quali si imbattono in molti ognio giorno, sono a volte più pericolose e invivibili dell'Alaska.

Certamente i luoghi, le esigenze, i mezzi e gli obiettivi sono diversi.

La forza come la fede scaturisce nelle circostanze gravose.
La bellezza dei luoghi sta nella capacità di saper leggere ciò che ci circonda.
Non esistono non-luoghi.

...queste sono banalità...

In un sistema normale quello che ho appena scritto funzionerebbe, sarebbe un coming-out per cominciare a combattere, ma
ci stanno uccidendo, piano piano...

...l'elettroenecefalogramma sussulta appena...il cuore giace sopito sotto una coltre di problemi e troppo lavoro...la nostra necessità di realizzarci come individui che uccide la famiglia...una politica gestita da anziani senza orizzonti...

...stanchi, soffochiamo, sognando la casa sulla spiaggia.
Non consci della nostra incapacità di sopravvivere nella civiltà.
Figuriamoci nei pressi delle acque salate.

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Ascoltando:
Beach House, Beach House, 2006
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martedì 5 febbraio 2008

PILOTS

Forse dopo questo post dovrò andare dall'analista.
La curiosità di ciò che un esperto potrebbe rivelarmi, mi attanaglia da tempo, ormai.
Per l'ennesima volta sto pensando alla vita come a una strada.

Ingenuamente, non so cosa significhi.

Forse è perché sono incredibilmente fatalista, forse perché qualche esame di urbanistica mi ha deviato.

Talvolta visualizzo la mia vita con un punto di osservazione collocato all'infinito.
Dall'assonometria di uno sguardo ravvicinato, la vista si trasforma in una prospettiva, poi in una rappresentazione con tre punti di fuga, poi un volo d'uccello.

Il risultato finale è una rappresentazione piatta, senza scorci, distorsioni, una forma simbolica alla Panofsky.

E' poi semplice vedere i tracciati, come si sono incrociati, i lassi di tempo, gli scontri.

Nei voli pindarici della mia mente, di fronte a un martini cocktail e l'amica di una vita, sono invece sceso in picchiata fino a terra.
Parlando di relazioni difficili, ho visualizzato le storie d'amore come una lingua d'asfalto percorso da cartelli.

A qualsiasi velocità percorriamo il nostro tracciato, spesso siamo soli.
Soli in ogni ripensamento, soli nel corso di ogni decisione che riguarda noi e la nostra metà.

L'unica compagnia sono dei cartelli che ci avvisano.

Gli avvisi debuttano in forma di paracarri con le scritte consumate dal tempo, ci passano accanto poi dei cartelli arrugginiti dalle piogge scroscianti.
Bufere d'amore.
Infine cartelli lucidi e smaltati, sempre più grandi.

Talmente enormi che dobbiamo correggere la traiettoria per non sbatterci contro.

Un enorme STOP che ci impone una brusca frenata.

Dovrebbero fare severissimi esami della vista, per chi, presuntuosamente, decide con coraggio di percorrere l'autostrada dell'amore.

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Ascoltando:
Goldfrapp, Felt Mountain, 2000
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