giovedì 25 settembre 2008

LAND'S END (SINELINE)

L'idea di un mondo determinato, racchiudibile all'interno di limiti definiti, mi ha da sempre incuriosito.
Il nostro modo di rappresentare gli oggetti, secondo un punto di vista antropocentrico, prevede da tempo l’utilizzo del concetto di “infinito”.

Le linee che convergono in uno o più punti di fuga è squisitamente occidentale, si possono trovare infatti esempi di prospettiva anche in alcuni edifici a Pompei.
In oriente era tutto più semplice, enormi rotoli venivano stesi raffigurando infiniti orizzonti dove le persone avevano senso di esistere perché “poggiate” su di una linea, un po’ come accade  nella Colonna Traiana.

Per uno come me la fine arriva sempre, o quasi, subito.

Da piccolo avevo cominciato a scrivere al contrario, per firmare i miei disegni, partendo dall’angolo in basso a destra del foglio.
Dal limite ultimo.

Un mancino riesce normalmente a mimetizzarsi in mezzo alla società, il suo handicap è a volte impercettibile, naturalmente non rimane inosservato di fronte ai suoi simili.

Il ritrovarmi però a sfogliare le riviste tutte le volte dalla fine, a guardare prima la pagina 46, poi Bartezzaghi e poi vedere comparire la dicitura “la rivista che vanta innumerevoli tentativi di imitazione” è quanto meno curioso.

Si, perché noi “scorretti”, sfogliamo tutta la carta stampata con il pollice della mano sinistra.

Ogni volta che guardo un libro preso da uno scaffale, lo scorro al contrario, distogliendo lo sguardo all’inizio, per sottrarmi al misterioso finale.
A seguito arrivano le prime parole, gli occhi si muovono mentre, in un gesto acrobatico, si compie “il passaggio di mano”.

Quando hai ogni volta la fine di fronte, tutto ti sembra così ordinato.
La tua è una percezione distorta della realtà, ti senti un po’ come Max Tivoli.

Malinconico, con lo sguardo spento, pieno di rimpianti, ma speranzoso.

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Ascoltando:
Van der Graaf Generator, Pawn Hearts, 1971
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sabato 13 settembre 2008

POLVERE

E' stata la visione delle splendide opere del fotografo goriziano Kusterle (grazie PV della segnalazione), il motivo che mi ha spinto a scrivere su questo tema.
Le definisco opere perché mi sembra riduttivo parlare di ritratti, fotografie.

Il solito pretesto del tema è il titolo di una canzone, un brano di Ruggeri che ho iniziato ad amare sin da piccolo, assieme a "Il mare d'inverno".

Spesso passo giornate chiuso in ufficio, riparato dall'esterno da spesse finestre ermetiche, respirando la brezza che spira dal climatizzatore.

A volte penso che il  mondo sterilizzato in cui vive Michael Jackson, più che una follia, sia semplicemente l'opera di un visionario.
La chirurgia estetica, lo sbiancamento della pelle, la camera iperbarica in cui dorme sembrano più che mai attuali a distanza di vent'anni.

Per la nostra cultura estetica, gli oggetti su cui si è posata la patina del tempo, i mobili poveri e vecchi ruderi, recuperano valore solo perché consunti, non perché abbiano una valenza artistica.

Ogni giorno mi ritrovo costretto a sopportare con un continuo rumore di fondo, un brusio visivo.
Arte digitale artificialmente sporcata.

Le fotografie che ho visto mi hanno ricordato i pezzi di legno che trovavo da piccolo sul bagnasciuga, restituiti dal mare, consumati dalla salsedine e dalla sabbia.

Siamo affascinati dal passare del tempo e dagli oggetti che esso ci regala, anche se sono frutto di un solo granello di polvere.

Forse sono solo perle per i porci.

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Ascoltando:
Enrico Ruggeri, Polvere, 1999
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