sabato 31 dicembre 2011

STAY (FARAWAY, SO CLOSE!)

La storia dell’uomo è costellata di metodi e sistemi di semplificazione della natura, la quale è il più delle volte troppo complessa per poter essere ridotta a sistemi costituiti di poche variabili.
Il rilievo è una pratica che prevede la restituzione di forme articolate in solidi più o meno puri.
A seconda della dimensione dell’oggetto e dell’accuratezza a cui si vuole arrivare per la definizione dello stesso, vengono utilizzati scanner tridimensionali, tastatori, geodimetri, profilometri, ed altri sistemi di misurazione.
Tutte le metodologie prevedono però una operazione preliminare: il progetto di rilievo.
Il docente di rilievo dell’università ci aveva sottolineato questo aspetto durante una lezione, spesso è complicato ritornare in un luogo a prendere delle misure che ci servono, la mancanza anche solo di un dato può compromettere la possibilità di ridisegnare un edificio in maniera corretta.

Un buon progetto di rilievo ha ovviamente come fine l’ottimizzazione del tempo.

Se per le parti meno articolate possono bastare poche misure, dove invece ci sono molte insenature e variazioni, è necessario aggiungere molti punti, questo per poter arrivare a definirne la forma in maniera esaustiva.
Lo scultore Antonio Canova, era solito studiare le sue opere preliminarmente con degli schizzi, in cui rappresentava le figure prese da diverse angolazioni.
Successivamente egli passava a modellare la creta per ricavare un negativo in gesso e infine colare il positivo sempre in gesso: sarebbe stato il vero e proprio modello per la scultura definitiva.
Questi bozzetti, di diverse dimensioni, sono visibili nella splendida gipsoteca Canoviana a Possagno (TV).
La prima cosa che salta all’occhio osservando le opere contenute, è l’enorme quantità di puntini neri che costellano le statue in gesso.
I “repère” sono dei chiodini metallici che venivano infissi sulle parti più interessanti di un modello, per poter trasferirne le proporzioni sull’opera originale mediante un pantografo.
Nei volti e nei punti più ostici è possibile osservare una maggiore quantità di puntini, Canova sapeva che era necessario soffermarsi sui dettagli per ottenere una verosimiglianza del modello.
Gli esseri umani sono solidi immensamente complessi da capire, si possono utilizzare strumenti altamente sofisticati e ricostruire mediante interpolazione azioni e lati oscuri del carattere, ma quello che facciamo è sempre semplificare delle forme frattali, immensamente complesse, in prismi più o meno grandi.
Ipotizziamo una funzione che soddisfi l’andamento della forma al di fuori di punti certi.
Nell’approcciarmi alle forme di espressione, non sono mai riuscito a soffermarmi sui dettagli, sono sempre stato bravo a cogliere fisionomie e proporzioni, come se utilizzassi subito una rete a maglie larghe di punti per tutta la figura intera.
Lo stesso procedimento credo di averlo sempre utilizzato per cercare di delineare le personalità delle persone che ho incontrato nella mia vita, dimenticando qualsiasi abbozzo di progetto di rilievo.

A differenza dei solidi geometrici, la bontà della restituzione dell’immagine di un essere umano è frutto solo di due variabili: la quantità di punti e la loro posizione.

I dati mancanti, infatti, per sicurezza sarebbe meglio non ipotizzarli.
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Ascoltando:
U2, Achtung Baby, 1991


martedì 13 dicembre 2011

INDISCIPLINE

Uno dei pochi eventi di "Pordenonelegge" che quest'anno sono riuscito a seguire, è stata la presentazione del libro "Bitches Brew. Genesi del capolavoro di Miles Davis" di Enrico Merlin e Veniero Rizzardi.
Oltre alla splendida illustrazione del concepimento di questo capolavoro del jazz (il quale riuscì ad unire critica e vendite, secondo in questo solo a "Kind of Blue", dello stesso Davis) e il concerto che ne è seguito, mi ha particolarmente colpito un aneddoto riguardante questo mostro sacro della musica contemporanea.
Merlin ha raccontato di un concerto del trombettista, in cui un suo musicista si lanciò in un assolo.
Mentre questi stava suonando Miles gli si avvicinò all'orecchio e, con la sua caratteristica voce roca, gli esclamò: "You're fired!".
Il concerto più tardi finì e tutti andarono nei camerini; allora il musicista in questione si avvicinò allibito a Davis e, conoscendo il carattere eclettico del genio, gli domandò se parlava sul serio quando lo aveva licenziato.
Miles candidamente gli confessò che, nel pomeriggio, era passato davanti alla sua camera in albergo e aveva sentito che si stava esercitando.
Il musicista in effetti stava provando alcuni passaggi, intimorito dall’eventualità di sbagliare la sera, durante il concerto.
Le stesse note, con gli stessi accenti, li aveva poi ripetuti durante il concerto.
Davis, dopo avergli spiegato l'antefatto, gli urlò: "Ti pago per esibirti davanti alla gente, non per perfezionare qualche fottuto lick in camera tua" (il lick è un passaggio, una frase imparata a memoria come esercizio).
Lo stesso sistema che utilizzò quel musicista, lo osserviamo utilizzato da venditori, commercianti e talvolta anche da amici, incapaci di distinguere il lavoro dalla vita privata.
Con la nascita dei social network e della comunicazione attiva di massa, personalmente riesco a trovare sempre più raramente sprazzi di improvvisazione nelle comunicazioni.

Sembra che tutti si esercitino al laptop, analizzando quale frase sia più ad effetto.
Quella che riceve più "like".

Il giocattolino che funziona lo si ripropone poi durante una discussione, una chiacchierata, più e più volte, con sempre meno convinzione.
Mi capita di sentire amici che mi sfornano espressioni che hanno scritto durante il giorno, frasi però che hanno perso la loro energia.
La finzione di volta in volta trasuda da ogni sillaba, ogni lettera inizia a puzzare di stantio, questi pattern si svalutano, appiattiti da un loro uso massiccio.

Una sorta di prostituzione del verbo.

Credo che un concetto, un aforisma siano in questo caso assimilabili a un’opera d’arte.
Ugo Foscolo scrisse nell'Epistolario che "L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, ma nel rappresentare con novità."
Col passare del tempo sto diventando sempre più esigente nei contatti e, trovandomi di fronte ad affinate tecniche comunicative, mi trovo costretto talvolta anche io a licenziare.
Voglio chiarire che non sono così presuntuoso da considerarmi un leader e vedere le persone che frequento come turnisti alla mia corte.
Semplicemente ho sempre il sospetto che, se il mio interlocutore sta cercando di vendermi qualcosa, vuole dire che in realtà non ha nulla da offrirmi.
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Ascoltando:
King Crimson, Discipline, 1981

giovedì 24 novembre 2011

RIDER TO THE SEA

Adrian la chiama “la onda”.

In sala prove con Sandro la sentivamo come una brezza in volto, leggera, che ti lambiva la pelle.
Nel mondo della musica qualcuno lo chiama groove, tiro, è quando stai suonando in gruppo e senti che quello che esce dalle casse, non è solo il prodotto dell’energia che vi stai infondendo, ma qualcosa infinitamente superiore.

Certo, ti stai impegnando, hai in mente l’armonia, il ritmo, i cambi, gli stacchi, le variazioni, ma ti sembra di dimenticarle, per lasciare spazio ad altro.

E qualcosa accade.

Coltrane, se non ricordo male, una volta disse che per fare musica, prima devi conoscere lo strumento, poi devi dimenticartene mentre stai suonando.
Se l’unico modo per potersi muovere tra i paletti con una certa disinvoltura, è quello di conoscerne precisamente la loro posizione, dimenticandosi della loro presenza, ben vengano i paletti.

Hai un binario deciso a priori, sul quale puoi fare quello che vuoi, le rotaie sono di un materiale duttile, ma ne hai deciso la traiettoria assieme ad altre persone, e non puoi permetterti di dimenticarlo.
Puoi lasciarti spazio per improvvisare, uscire con un solo mentre gli altri tengono salda la struttura sotto i tuoi piedi, poi tornare nelle retrovie, tenendo questa volta tu ritmo e armonia saldi.

Chiudi gli occhi e cerchi di sentire tutti.
Ascoltare tutti.

Ti ritrovi a pensare a cosa sta succedendo nella tua vita, alle persone che non sono con te in quel momento, per vedere quelle che sono con te basterebbe aprire gli occhi.

Sei altrove e intanto un processo mentale corre parallelo, si occupa lui di posizionare le tue dita al momento giusto, sul tasto giusto.
E’ come quando la mattina senti la sveglia e la spegni trovando subito il pulsante sotto le tue dita.
Nonostante tu ti sia girato e rigirato più volte nel letto.

Tutto scorre come un fiume in piena e tu non puoi fare altro che assecondarlo, il tuo valore aggiunto riesci a apporlo, perché alla struttura stai sovrapponendo emozioni, energia e piccoli interventi parzialmente incompiuti, i quali lasciano spazio all’immaginazione di chi ascolta.

Di chi sa coglierli.

Suonando uno strumento con altre persone, riesci ad aggiungere qualcosa di tangibile solamente quando riesci a lasciarti andare, conscio però di dove stai andando e di dov’eri un attimo prima.
Ti accorgi che quando ci sei dentro, inevitabilmente non puoi fare altro che seguire il ritmo fino in fondo, finché ad un a tratto riapri gli occhi, ti guardi con gli altri e con uno sguardo hai la certezza che anche loro stavano vivendo lo stesso momento, magari con un’altra intensità.
Ti fai un cenno e decidete che è l’ultimo giro, ora goditi gli applausi, ve li siete meritati.
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Ascoltando:
Anna Calvi, Anna Calvi, 2011

domenica 9 ottobre 2011

SATELLITE OF LOVE

Gli interventi nel blog sono sempre più rari, pensavo che forse le cose più personali posso tenerle un po’ per me, coccolarle, prima di condividerle con chi inciampa in questa pagina.
Anche se credo che questo non sia nel mio stile, sono un esibizionista che ama condividere tutto, perché condividere è guarire.
Mi piace ancora correre, inciampare e sbucciarmi le ginocchia, per poi leccarmi le ferite, l’ho scoperto recentemente.
Quando arrivi a un punto morto devi cercare la svolta, a volte arriva senza aspettare molto.
Cerchi uno scopo in quello che fai e non lo trovi, le tue passioni ti soddisfano sempre meno, l’autocritica comincia a mangiarsi quel pizzico di amor proprio che ti rimane.
Resti lì, con lo stecchino in mano, mentre un liquido freddo e appiccicoso cola sulla tua mano e sul braccio.
Quel ghiacciolo sciolto è la tua vita.

Hai perso il ritmo e non riesci a girare con il mondo, non riesci neanche a interpretarlo, a osservarlo.

Noi non siamo preparati alla quantità di vita che abbiamo a disposizione.

Non sappiamo che farcene.
La cattiva educazione inizia sin da piccoli, i genitori non riescono a farti compagnia durante la giornata e decidono così di iscriverti a corsi, società sportive, così da tenerti impegnato.

Impegnato in cosa poi.

Inizi da fanciullo a barattare la tua vita con compromessi, contratti, responsabilità.

Cominci a confondere la tua vita con il tempo, come se avere tempo volesse avere vita, ma non è così.

Potresti avere anche un solo giorno di vita e non sapresti che fartene, cercheresti di occuparlo in qualche modo.

Riempiendolo.

E’ tutta qui la tua libertà?
Hai prestato la tua vita a mogli, mariti, ex compagni, datori di lavoro, banche, ceduto a compromessi ogni giorno, pur di poter prestare energia vitale.

Prestiti senza interessi, sia ben chiaro.

Sono in molti che, a un certo punto della loro vita, si trovano di fronte ad un muro.
Credo che non sia colpa del giungere tardo della consapevolezza.
Si accorgono semplicemente di essere vivi.

Se, tutto ad un tratto, venisse restituita loro tutta la vita, il loro cuore potrebbe scoppiare.
Lacerati dalle emozioni, vagherebbero per lo spazio, come frammenti di satelliti, colmi d’amore.
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Ascoltando:
Lou Reed, Transformer, 1972

giovedì 15 settembre 2011

CANTONESE BOY

Ad essere autocritici, è da un po’ che non scrivo, questa appena trascorsa è stata l’estate degli imprevisti.
Il lato positivo è che ho raccolto le idee, appunti e immagini che ho potuto lasciare decantare, sperando possano nascere fiori.

Continuo a informarmi poco sui quotidiani, cerco però di cogliere frammenti, briciole e di comporli con logica.
Il risultato, spesso, è una sorta di collage dadaista che raffigura dignitosamente l’intento, ma che conserva l’odore di vinilica e i bordi frastagliati, di un’opera fatta in casa.

La crisi continua a mordere il vecchio continente e di conseguenza il nostro paese che, a suon di grafici decrescenti, soffoca assieme a banche e titoli azionari.

Numeri.

Spread, bond, PIL, le bocche si riempiono di termini appena focalizzati, al bar sembrano tutti studiosi di economia politica.
Tra un cornetto e un cappuccio si propongono manovre, da buoni amanti del calcio siamo tutti potenziali allenatori, poco disposti a sporcarci le mani, primi a criticare chi ha deciso qualcosa.

Nella nebulosa di informazioni e proposte che riguardano il nostro paese, una certezza che ci rinfranca è il nostro enorme e insostenibile debito pubblico.
Le proposte sono le più svariate, quello che è certo è che a poco a poco cominceremo a vendere parti del nostro paese.

All’orizzonte si è affacciata la Cina la quale, dopo aver acquistato parte del debito statunitense, ora sembra voler venire a fare acquisti qui da noi.
Per anni abbiamo fatto investimenti nel sol levante, conosciamo bene la situazione, non ci sorprenderà quindi apprendere che anche questa volta saranno loro a dettare le condizioni, ad esempio il superamento dei dazi doganali.

Non so voi, ma io non ce la faccio a ragionare senza solidificare i concetti, dargli una forma, in questo caso vedo questi giochi globali come una vera e propria guerra.
Una guerra che farò dei morti, creerà depressione, sposterà popolazioni, lascerà territori sterili ed edifici decadenti.

Allo stesso modo del racconto di John Perkins, il “sicario economico”, sembra che oggi siano in atto degli sconvolgimenti globali paragonabili a quelli trascorsi.

Questa volta però senza armi, senza sangue, senza politica.

Lentamente la Cina ci ingloberà, ci acquisterà senza muovere un dito.

Come nelle arti marziali, sembra che essa utilizzi la forza dell’avversario per trarne vantaggio.

Di fronte ad una politica nazionale fintamente ottusa, volta all’odio razziale, colma di parole per denigrare un popolo, loro decidono di "darci una mano".

Non è che lo facciano per un atto di compassione, credo che sia l’unica cosa che riescano a fare.

D'altronde siamo noi ad averla tesa.
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Ascoltando:
Japan, Tin Drum, 1981

domenica 24 luglio 2011

FEARLESS (YOU'LL NEVER WALK ALONE)

MI-LAN!!! MI-LAN!!! JU-VE!!! JU-VE!!! IN-TER!!! IN-TER!!!
Come si sia diffusa la tendenza di tifare squadre delle grandi città, nessuno se lo sa spiegare.
E’ un altro esempio di come l’amnesia del passato, patologia in Italia diffusissima e spesso cronica, sia il primo passo per dimenticare “il perché” delle cose.
Non ho mai amato lo sport, la competizione agonistica, il tifo, ma credo che sia una passione atavica, ancestrale, radicata soprattutto nel Belpaese.
Qualcuno potrà giustificare questa tendenza con il fatto che siamo mediterranei, un popolo focoso, votato alla discussione accesa e spesso alla rissa.
Sarà il caldo.
Mi sono soffermato più volte su di questo parallelo, senza procedere un granché, come spesso arrivano le illuminazioni, lo spunto è giunto inaspettato.
Giorni fa, sono stato ospite di uno stravagante e carismatico personaggio che, dopo una deliziosa cena cucinata con le sue mani, si è lasciato sfuggire alcune dichiarazioni e riflessioni sulla politica, argomento spesso bandito in occasioni di questo genere.
Ci ha raccontato dei dibattiti che ha osservato tra le persone, rabbiose come se si trattasse di fazioni calcistiche, delle discussioni che si accendono al supermercato, in posta, ce lo diceva con il cuore in mano.
Maurizio (questo è il suo nome) sostiene che non dovrebbe essere permesso di tifare una squadra di un’altra città, al massimo lui darebbe la concessione di sostenere la squadra della propria provincia.
Ma quella di un’altra città no.
Pure in politica dovrebbe essere così, ma naturalmente accade il contrario.
Ho osservato mestamente l’enormità della mia ignoranza riguardo la gestione del mio comune, soprattutto rimuginando sulla mia indignazione nei confronti degli scandali nazionali che riguardano politica e sport.
Così vicini, così lontani.
Uno sproposito di decisioni vengono prese a livello locale, sono decisioni che agiscono sull’immediato nella nostra vita, malgrado questo noi spostiamo il nostro interesse sul contratto telefonico agevolato per i parlamentari.
La “casta” sta diventando un business, uno specchietto per le allodole per occupare il nostro tempo in grovigli inestricabili.
Cominciano a guadagnare di più quelli che parlano di politica rispetto a chi la fa, accade già nell’architettura.
Da tempo gli appassionati di sport si ergono ad allenatore, propongono rose, cambi, formazioni e acquisti, oggi qualcuno lo fa osservando Montecitorio.
Mi è sorto persino il dubbio che tutto questo infervorarsi per la politica, questo attivismo da laptop sia un sistema per allontanarci, per farci dimenticare quanto è semplice cambiare la nostra società.
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Ascoltando:
Pink Floyd, Meddle, 1971

martedì 28 giugno 2011

HERE COMES THE FLOOD

Secondo due indagini condotte nel  1999-2000 e nel 2004-2005, il venti percento della popolazione italiana non possiede gli strumenti di lettura, scrittura e calcolo minimi per potersi orientare all’interno della società contemporanea.
Addirittura cinque persone su cento tra i sedici e i sessantacinque anni, non riesce a distinguere lettere e numeri.
Questo è uno spaccato del nostro paese, con il quale ci dobbiamo confrontare quando utilizziamo il termine, sempre più spesso ripetuto, “gente”:
“La gente non capisce”;
“La gente deve assimilare”;
“La cultura media della gente”.
Specialmente nel periodo elettorale, a seconda di come si muovono i voti, la “gente” è, a seconda dei casi, elogiata, insultata o paragonata a burattini alla mercé della classe dirigente.
I leader e i candidati, a tutti i livelli, credono che un loro cenno possa spostare le croci sui simboli.
Le famose “indicazioni di voto”.
Certamente i mezzi di informazione e intrattenimento l’hanno fatta da padrona: durante gli ultimi vent’anni della storia del nostro paese, poche persone facoltose sono state in grado di spostare l’attenzione e alcune scelte della popolazione.
E’ solo recentemente, grazie alla frammentazione del palinsesto televisivo e la diffusione capillare di internet, che molte abitudini della popolazione italiana sono mutate.
Ciò che non è cambiato e non varierà in maniera repentina, sono i dati citati all’inizio.
Nessuno parla di questa piaga, ma l’alfabetizzazione di un paese è un indice importantissimo: sarebbe il primo passo verso la partecipazione reale alla democrazia.
La fase successiva, potrebbe essere quella di utilizzare concetti e termini semplici, per descrivere l’attività di un governo: riavvicinare la popolazione all’educazione civica.
Non dovrebbe essere necessario un laureato in economia per  capire una riforma economica oppure un progetto di privatizzazione della gestione dell’acqua.
Basterebbe semplificare il linguaggio sia di chi ci governa, che dei giornalisti.
La televisione, da mezzo formativo e di intrattenimento culturale, ha cominciato sempre più a guardare a quel venti percento di analfabeti, cercando di fare proseliti.
Nessuno può prendersi la libertà di criticare la “gente”, perché dovrebbe accorgersi che tra la “gente” c’è anche lui.
Io la figuro come un liquido in costante agitazione all’interno di un recipiente, un’onda di cui non è più possibile leggere la genesi, ma che è pronta a travolgere con la sua forza, qualsiasi cosa si frapponga tra lei e il suo obiettivo.
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Ascoltando:
Robert Fripp, Exposure, 1979

martedì 7 giugno 2011

DREAMS

La campagna elettorale si è appena conclusa, lasciandomi l’amaro in bocca.
Forse mi ero aspettato troppo, i risultati sono stati infatti deludenti anche se, forse, una netta esclusione può rivelarsi meno dolorosa di uno scontato e sofferto ballottaggio.
E’ stata un’esperienza decisamente emozionante, gli stimoli non sono mai mancati, una autentica iniezione di adrenalina che ha attraversato il mio corpo come una scossa, donandomi forze e incentivi.
Questo anche se gli impegni si concentravano la sera, spesso dopo una dura giornata di lavoro.

Non ho vissuto questa esperienza come un sogno.

Ho già più volte scritto di aver vissuto la mia vita in modo irrazionale per troppi anni, adesso invece i sogni sono stati estratti dai cassetti e portati nei cassonetti.
Raccolta differenziata.
Le tappe salienti della mia vita, sino a ora le avevo saggiate adoperandomi in una serie di salti di qualità, azzardati o meno, privi di un allenamento metodico.
Senza misurare le forze.

Credevo che i sogni fossero l’unica speranza per immaginare un orizzonte nella nostra vita, scevra da ostacoli, muri, preconcetti: l’unico fuoco per disegnare una prospettiva.

Il sogno l’ho relegato a un “horror vacui”, un limbo nel quale si vaga anestetizzati, esibendo un mezzo sorriso sulle labbra.
Un miraggio che ci fa sperare nella lotteria, nel gratta e vinci, nella fortuna, nell’eredità, nella botta di culo di essere al posto giusto al momento giusto.

Io sono sempre al posto giusto al momento giusto, questo perché l’ho scelto personalmente, non le mille possibilità stocastiche.

Non è il mondo ad essere difficile, competitivo oppure colmo di ricatti e vizi, si presenta così a noi solo perché abbiamo il terrore di barattare i nostri sogni per la nostra vita.

Io ho scelto di non illudermi più, però non sono riuscito ancora a misurare le mie forze.
Sarebbe l’unico tassello che potrebbe sopprimere qualsiasi ipotetica delusione.
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Ascoltando:
The Cranberries, Everybody Else Is Doing It, So Why Can't We?, 1993

lunedì 25 aprile 2011

Vivo morto o X

A volte mi soffermo sui comportamenti delle persone, non sarò un sociologo ma mi piace osservare la gente.
Più raramente invece, osservo il mondo con l’occhio dell’urbanista, scrutando come i progetti condizionano i comportamenti umani, generando degrado sociale oppure nobilitazione.
“Architettura è politica” citava lo slogan, impresso su un quadernino di schizzi, che ho acquistato a una recente Biennale di Venezia, sottolineando che fare architettura è un atto sociale, politico.
Da piccolo consideravo la politica un qualcosa di complicato, contorto, un ingarbugliato labirinto di leggi, norme, codici incomprensibili.
Per anni mi sono attenuto a quello che diceva mio padre, il quale risultava sempre più chiaro dei giornalisti: “La politica è sangue e merda” mi diceva papà, citando l’antico adagio di Rino Formica.
Più tardi, ho cercato di colmare le mie lacune di storia contemporanea  con l’acquisto di quotidiani e parlando con le persone; devo ammettere che ho imparato più da chi non la pensava come me che da chi condivideva le mie idee.
Recentemente, complice il clima politico infuocato e la dilagante anti politica, ho condiviso questa percezione di impotenza di fronte alla classe dirigente.
Non credo che questa propensione sia conseguenza di un timore di schierarsi, di metterci la faccia.

Ogni giorno infatti incontro persone che ci mettono la faccia: anziani che urlano al bar, donne che si insultano al supermercato, cori da stadio.

Questa è la media dei dibattiti politici che interessano argomenti nazionali.

La dimensione civica sembra sia minore, piccola, una realtà innocua.
E’ solo nel periodo elettorale che, anche in comunità di poche migliaia di abitanti, vengono proiettate le cattive usanze nazionali.
Ci si mette la faccia solo a parole, perché sappiamo che il giorno dopo possiamo contraddirci, non  ci siamo cuciti una bandiera addosso, non ci siamo schierati.
Ecco, anche io non mi sono schierato, non mi sono cucito addosso una bandiera, non porto sulle spalle le problematiche nazionali che sono troppo pesanti per la mia schiena.
Sono entrato in un gruppo di lavoro, un orticello di idee, composto di persone con le quali discuto e condivido le visioni per la mia città, visioni e scenari lungimiranti, si auspica.
Nessun sogno: quest’anno ho deciso di sbarazzarmi dei sogni e piantare intenti.
Appoggio una persona che stimo, credo possa fare del bene per la mia città.
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Ascoltando:
Ligabue, Buon Compleanno Elvis, 1995

mercoledì 13 aprile 2011

SUPERSTITION

Dicono che le piramidi cominciarono a essere depredate dalle morti dei rispettivi faraoni, in barba a maledizioni e superstizioni.
E’ comprovato che l’Anfiteatro Flavio, dopo il declino dell’impero romano, fu adoperato come cava per materiali da costruzione: i romani impiegarono, infatti, pietre, rocchi e capitelli dell’edificio per le murature di alcuni edifici residenziali.
Sembrerebbe insomma che, passato lo splendore di una civiltà, i popoli vogliano subito sbarazzarsi dei simboli dello sfarzo, appropriandosi di frammenti di eternità da esporre nelle proprie abitazioni private.
Come trofei di una guerra.
Lo spoglio di edifici rappresentativi, ha quindi numerose radici storiche, si può ipotizzare che nell’era di internet, tale pratica verrà realizzata in tempi record.
Il periodo di imbarbarimento che può attraversare una società in declino, non è prevedibile e talvolta stupisce anche i più fantasiosi.
Oggi non possiamo immaginare cosa succederà ai monumenti dell’occidente, quando il suo predominio vacillerà, quando le sue religioni e i suoi simboli non avranno più senso per le popolazioni che vi abitano.

Ma non siamo sotto assedio: i nostri veri nemici siamo noi stessi.
Nella periferia di Marghera, su terreni polverosi, oggi sorgono cattedrali disabitate: sono i grandi stabilimenti dismessi di aziende, dai fasti gloriosi.
Alla stessa stregua di ciò che avveniva negli edifici religiosi, qui i culti del capitalismo e quello della produzione industriale si officiavano ogni giorno.
In pochi sanno che oggi, questi immense testimonianze di un passato nemmeno tanto remoto, vengono depredati di ogni materiale commerciabile e riutilizzabile.
Alla faccia dell’arte povera e delle energie rinnovabili.
Intere squadre di abusivi, con orari e turni simili a quelli degli stabilimenti attivi, ogni giorno entrano in queste aree e cominciano letteralmente a smontare questi edifici.
All'inizio prendono tutto ciò che può essere trasportato facilmente, di facile guadagno: tamponamenti e macchinari, come fossero decorazioni, stucchi e pietre preziose.
Lentamente si arriva all'osso del fabbricato e ne rimane solo la scheletrica struttura.

A decine di metri d’altezza, vengono sfilati dalle strutture i cavi elettrici per estrarne l’anima in rame, facilmente rivendibile.

Pochi euro dividono questi individui dalla vita alla morte: il rischio è altissimo, il guadagno minimo.

Certo non saranno edifici di particolare interesse religioso o politico, ma vedere queste immense cattedrali d’acciaio sottratte di ogni elemento ha un sapore di film western.
Nude, senza dignità e decoro di una sepoltura, esposte al pubblico ludibrio, spazzate dal vento, scarnificate da sciacalli, microrganismi e intemperie.

Ci siamo dimenticati di queste opere d’arte, tecnicamente e artisticamente superiori ai contemporanei capannoni in cemento prefabbricati.

Ciò che mi ha stupito di queste aree dismesse, è il rapporto tra pieni e vuoti.
Come le abitazioni rurali agricole, questi immensi lotti di terreno, sovradimensionati rispetto ai fabbricati, ci danno l’idea di come questi fabbricati fossero dotati di una cornice, un passepartout che li nobilitava.
La scelta della nostra civiltà è stata quella di demolirli, oppure lasciare che crollassero sotto il peso degli anni.

Con la loro sparizione, perderemo storie e riflessioni, errori e successi della nostra società, sarà una insanabile amnesia edilizia.
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Ascoltando:
Stevie Wonder, Talking Book, 1972

lunedì 14 marzo 2011

OUR HOUSE

Certi corsi universitari avevano un sapore diverso, riuscivano nell'intento di costringermi a osservare il mondo con un’ottica completamente differente.
Uno in particolare, frequentato negli gli ultimi anni di università, propose l’analisi, lo studio e la presentazione di un progetto per una porzione di città diffusa.
Nel caso particolare si trattava di un tratto stradale che collega la città di Padova con quella di Castelfranco, ma era un pretesto.
In realtà scoprii che, correndo lungo quella strada e immergendosi nell'entroterra, era possibile afferrare un frammento che, reiterato, formava la megalopoli padana.
Prima di quella fatidica lezione tenuta da Bernardo Secchi, non avevo ancora percepito il mio territorio in questa ottica così ampia e di respiro europeo.
Gli assistente del docente, due ragazzi neolaureati e molto svegli (ho scoperto successivamente che hanno fatto carriera universitaria), durante il corso esposero i loro filtri interpretativi, utilizzati per analizzare il territorio in questione.
Per loro era stato argomento di tesi.
Tra questi parametri, uno in particolare mi aveva colpito: il posizionamento e le tipologie di recinzione delle abitazioni poteva essere un valido argomento di analisi per un sistema urbano.
Raramente nel mio lavoro ho avuto l’occasione di progettare ambienti senza confini delineati, spesso si trattava di definire spazi conclusi in se stessi, delimitati da recinzioni, privati.
Credo che sia stata proprio la logica del lotto chiuso in se stesso a minare gli aspetti più peculiari delle nostre città: si è trasformato il territorio in quartieri e lottizzazioni, in cui l’unico barlume di creatività e fantasia è relegato alla scelta dei nomi delle strade.
Sono certo che alla vista di una nuova lottizzazione, molti illustri anziani si tocchino i gioielli di famiglia.
Non è solo una questione di interpretazione della libertà e della proprietà, se decidiamo di delimitare i nostri ambiti con reti e fili.
E' la mancanza di senso civico.
A volte mi piace passeggiare per la mia desolata città ed ogni volta mi accorgo sempre più, che non è una città concepita per pedoni.
La progettazione dei nuovi quartieri, tasselli senza logica appiccicati nei luoghi, ha sfigurato il concetto di città.
Dormitori completamente isolati, senza possibilità di interazione.
Sono cresciuto in palazzi dove si condividevano gli spazi comuni, dove c’era una griglia di quartiere, dove si sentivano le telefonate dei vicini di casa e gli sciacquoni che rumoreggiavano di notte, come esplosioni.
Oggi sarebbero spunti per fegati rovinati dall’odio e cause legali.
Forse sono state le siepi a rovinare le nostre città?
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Ascoltando:
Crosby, Stills, Nash & Young, Déjà vu, 1970

lunedì 7 febbraio 2011

PIAZZA GRANDE

Nella mia città sono iniziati i lavori per aggiungere ulteriori e inutili metri quadri alla piazza principale.

La moda di lastricare i centri cittadini, in Europa ha il suo punto di culmine negli anni ’90, l’Italia decise di non stare lì a guardare.

Si presero di mira microcentri dal delicato equilibrio compositivo, con piazzette spesso tagliati da sottili vie urbane, decidendo di pavimentarle, sovrapponendo un linguaggio contemporaneo, a organismi che già respiravano di vita propria.

Una piazza è uno degli organismi più delicati di una città, solo attraverso un’attenta lettura della sua geometria, delle proporzioni, dell’altezza degli edifici che la prospettano, degli accessi, delle funzioni che accoglie, si può capirla.

A volte il suo funzionamento è inspiegabile.

Il progetto di una piazza è uno dei temi più difficili da affrontare, perché coinvolge regole che vanno al di là delle componenti vitruviane, la giustapposizione di un sistema di edifici che vive e respira è certamente un esercizio complicato.

Non basta stendere piastre di pietra per far sorgere delle agorà, lo ha descritto in maniera limpida Camillo Sitte con un testo che possiamo classificare come dimenticato, stando alle mosse delle amministrazioni politiche e dei progettisti.

Le vuote e mute piazze che sono sorte nei paesi e nelle cittadine del mio desertico nordest, sembrano più prospettive di De Chirico che luoghi di aggregazione.

I progetti sono fatti in copia carbone:
- lastre di medie dimensioni di colore grigio (lo sporco non risalta e le gomme da masticare incollate si notano di meno);
- spazi vuoti (che non permettono alle persone di sostare);
- presenza di oggetti decorativi inutili (fontane, specchi d’acqua e altro per giustificarne il costo).

Preso atto che le uniche persone in Italia che riescono ancora a vivere la città sono gli extracomunitari (noi siamo in casa connessi ai social network oppure imbambolati di fronte alla televisione), l’assenza di luoghi dove poter sostare all’interno delle piazze contemporanee, evita che gli extracomunitari possano sedersi e chiacchierare.
Così, per impedire alle persone di socializzare liberamente, siamo costretti a consumare bevande negli anonimi bar, situati sotto i portici, ai margini di queste enormi piastre silenziose.

Alcune città si stanno persino tutelando, con leggi che impediscono il consumo di cibi negli spazi aperti.

Qualcuno dovrebbe spiegare alle amministrazioni, che le piazze non sono belle se sono costituite da bei materiali, ma se funzionano.

Il mancato funzionamento le trasforma in non-luoghi, alienanti e abbandonati.

Costosi ruderi adagiati in paesini troppo esili per sostenerli.

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Ascoltando:
Lucio Dalla, Piazza Grande, 1972

mercoledì 12 gennaio 2011

UNA CAREZZA IN UN PUGNO

Se devo pensare a una immagine forte dell’anno appena concluso, il fiero sguardo di Mario Monicelli potrebbe riassumere tutti i giorni trascorsi.
Non mi ritengo un appassionato di cinema, me ne sono sempre interessato con discontinuità e senza seguire un percorso, a differenza di altre mie passioni.
I film, per me, sono sempre stati semplicemente spesso un fatto emozionale, estetico.
Sin da piccolo, a casa mia, uno dei film più attesi era “Amici Miei”, atto primo ma anche il secondo.
Avevamo due televisori: quello “grande”, a colori, ovviamente era posizionato in sala, mentre il quattordici pollici, bianco e nero, era in cucina.
Dopo aver cenato, questo contemporaneo focolare ci riuniva, suddivisi tra un divano e due poltrone.

Io e mio fratello immersi nel fumo passivo: profumo di famiglia.

Di “Amici Miei” ho sempre apprezzato il cinismo, lo stesso cinismo che ritrovavo nei primi film di Verdone, altro regista gradito in casa.

Nei loro film si aggiravano personaggi meschini, spregevoli, cattivi.
Reali.

Si scherzava e ci si divertiva su argomenti che oggi risulterebbero oggetto di censura.
Ai tempi la forbice spostava tette, culi e volgarità in seconda serata, non all’ora di cena.
La meschinità e il cinismo sono così scomparsi dal piccolo e grande schermo.

Immagino la cattiveria, come un elemento presente in natura che ogni giorno deve riversarsi nel mondo.
Trovando uno sbarramento nei media, esonda nelle strade.
Ciechi sguardi, colmi di crudeltà gratuita.

MUOVITICRETINO!!!
GUARDAQUESTOIMBECILLECHESORPASSAMADOVECORRI!!!
QUANTOSTUPIDOE’QUESTOCHESIFERMAINROTONDA!!!

Imprecazioni, travasi di bile per qualunque imprevisto nel loro cieco percorso.
Malvagità senza nessun fine.
Nei film di Monicelli la cattiveria era un mezzo per divertire, avere privilegi, un satirico pretesto, mai un fine.

Quanto era innocuo Haber che tentava di distruggere la tomba di sua moglie Adelina, dopo che Adolfo Celi si era finto un ex amante.

Ci doveva volere bene Monicelli: immortalandola nei film, stava togliendo cattiveria alla nostra quotidianità.
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Ascoltando:
Adriano Celentano, Le Origini di Adriano vol 2, 1999