mercoledì 16 aprile 2014

FROM WHOM THE BELL TOLLS

Credo di essermi perso poche edizioni della Biennale di Venezia negli ultimi quindici anni.
Quest'estate, uscendo dalla sede dell'Arsenale, pensai alla carenza d’idee, l’assenza di un filo logico che legasse le opere.
Vi tornai quasi dopo un mese utilizzando l’altro biglietto, entrando ai Giardini di Castello, animato dai peggiori presupposti.
Dopo aver vagato in lungo e in largo, piacevolmente colpito dalle opere che in questa sede erano notevolmente interessanti, giunsi nel padiglione della Polonia.
Alla mia destra e alla mia sinistra due campane nere che si fronteggiavano nel padiglione spoglio, fissate a delle strutture in ghisa.
Sulle pareti retrostanti agli strumenti vi erano due muri di casse, che ipotizzavo avrebbero amplificato il suono proveniente dai microfoni fissati alle strutture.

Hell's bells.

"Avrebbero", perché al momento del mio ingresso le due campane erano ferme, mute, immobili.

L’installazione rispettava degli orari.

Tornai così nel padiglione della Polonia all'ora in cui era prevista una "performance".
Seduto sul freddo pavimento attendevo il momento, la sala intanto si riempiva di persone vocianti.
Poco prima dell’inizio, una guida entrò in sala avvisando che:
-la performance sarebbe durata un quarto d'ora;
-il rumore sarebbe stato fastidioso;
-le vibrazioni sarebbero potute essere di difficile sopportazione.

La sala si svuotò per metà.

Le campane cominciarono a muoversi pian piano, sempre di più, come quando da piccolo salivi sull'altalena e non c'era nessuno a spingerti.
L'inclinazione era al limite, finché il batacchio toccò il metallo, l'enorme sala cominciò a suonare e vibrare a un volume assordante.
Io ero lì, a quattro metri da loro, mentre molti visitatori cominciavano a tapparsi le orecchie.
Dopo un tempo che parve interminabile: il silenzio.
Pian piano un fievole eco dei rintocchi, trasmesso dalle casse, un suono che si sovrapponeva fino a diventare tetro e vibrante.
Attorno a me c'erano persone che chiudevano gli occhi, come in trance.

Anche a me era venuta la voglia di lasciarmi andare, di rilassarmi a quell'onda.

Forse non era semplicemente un'opera d'arte da fruire, ma a cui partecipare.

Molte religioni prevedono la ripetizione reiterata delle preghiere, è un sistema per far entrare la nostra mente in estasi, facilitata dalla ripetizione del mantra, mentre il cervello comincia a implorare ossigeno.

Mi piace spesso citare Kundera quando dice che "Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. È per questo che l'uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione."

Il desiderio della prima volta da mettere dentro una ruota per criceti, in loop, come in un rapporto sessuale, cercando di mandare il nostro cervello in corto circuito.

Echi ribattuti tipici della psichedelia.

Forse perché è semplice amare tutto ciò che è ripetuto ritmicamente, uno stratagemma da utilizzare quando tutto procede in maniera lineare e troppo veloce.
Come delle stampe giapponesi ci precludiamo l'orizzonte.
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Ascoltando:
Michael Andrews, Donnie Darko Soundtrack, 2002
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