domenica 31 ottobre 2010

LA LUCE DELL'EST

Nelle svariate incongruenze della nostra democrazia, ma soprattutto del nostro governo, ce n’è una che mi colpisce maggiormente.

Durante l'ultimo decennio, gran parte degli stati europei e non solo, hanno stretto accordi economici con uno degli stati più controversi degli ultimi anni: la Cina.

Si può convenire che sia anche necessario turarci il naso per restare a galla, in un periodo come questo.

Tracciare una linea per poi potersi dichiarare fedeli.

In Italia però, come in una distorta legge della fisica, ci sono due spinte uguali e contrarie.

Da un lato stiliamo accordi economici con una delle dittature più potenti dell'intero pianeta, dall'altro i mezzi di informazione, spinti da pulsioni politiche, continuano a dipingere la Cina e i suoi derivati come un male da sconfiggere.

Farciscono i telegiornali con bollettini di guerra, dove l'importazione di giocattoli e altri prodotti viene sgominata dalle forze dell'ordine.

Non rispondenti alle normative.

Terzisti delle aziende della moda, soprattutto nel nordest, continuano a venire trovati in flagrante, in un export di sfruttamento e annullamento di diritti umani.

Le fantomatiche epidemie aviarie hanno fatto sparire i ristoranti cinesi dal nostro paese, i quali avevano fatto la fortuna negli anni 90.
Poco male, le stesse persone ora gestiscono i ristoranti giapponesi e i sushi bar.

In sintesi sembra che i mezzi di informazione propongano un boicottaggio dal basso, in cui si dovrebbe tendere ad acquistare prodotti non provenienti dalla Cina.

Riguardo la cosiddetta "democrazia dal basso" tanto sventolata da Grillo, ho avuto sempre dei dubbi.
La popolazione non ha il tempo materiale per proporre, rendersi attivi nella gestione del nostro paese.
E' già tanto se si informa e giudica l'operato del governo.

Però al solito le guerre sono fatte dal popolo.

Il lavoro sporco toccherà farlo a noi, cercando di divincolarci nel non acquisto di prodotti, senza sapere il perché.

Beata ignoranza.
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Ascoltando:
Lucio Battisti, Il mio canto libero, 1972

martedì 12 ottobre 2010

THIS GARLIC CAKE

La trasmissione "dadada", la scorsa estate in onda su Raiuno, ci ha presentato ogni sera uno spaccato di un'Italia persa.

Un paese mancato.

Alle volte ci si domanda dove siano finiti i vari Gasmann, Bene, Tognazzi.
Bastava una loro intervista per fare cultura, donare una ventata di ossigeno.

In un paese come il nostro la padella sembra essere uno sbocco economico e culturale.

Per mesi mi sono chiesto dove andassero a finire tutti i cibi che preparavano in televisione.
E’ inutile che cercate di farmela bere, no, io non ci credo che voi cuochi e conduttori riusciate a mangiare a tutte le ore.
Dubito del fatto che questi professionisti trovino il tempo persino di tornare alle proprie cucine dei rispettivi rinomati ristoranti.

Mai come ora Castelmagno, lardo di Colonnata e carne di Chianina, sono sulla bocca di tutti, anche non in senso figurato.
Anche la cultura del bere bene si sta decisamente diffondendo, gli scaffali dei supermercati lo dimostrano.
Gli italiani sono un popolo pingue, contraddistinto da un fisico appesantito da anni di benessere e una gioventù  annoiata.

La cucina diventa la tela da dipingere, il blocco da scolpire, un singolare mezzo di espressione.

Sono convinto che questa forma d’arte sia una delle poche in cui ancora oggi dimostriamo palesemente la nostra leadership.

Sacrificherei gran parte degli approfondimenti culturali dei telegiornali nazionali, che troppo spesso dedicano tempo e denaro a talent show e fuocherelli di paglia.
Rinuncerei persino a quel poco di finanziamenti che il governo concede alla cultura, sperperati dall’ignoranza delle amministrazioni.

Proviamo a immaginare uno stato in cui tutti gli sforzi economici e tutti i media si occupano di tagliatelle e rigatoni, costate e filetti, al posto di fare programmi di approfondimento politico.
Sarei persino contento.

A differenza di certi presentatori e personaggi politici infatti, sono pochi i cibi che non digerisco.
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Ascoltando:
Samuel Katarro, Beach Party, 2008

lunedì 4 ottobre 2010

GLITTERING PRIZE

Una delle conseguenze immediate della crisi è la scomparsa degli anelli più deboli della catena economica.

L’acquirente, anche il meno scaltro, oggi cerca di saltare passaggi che vede inutili, spendendo del proprio tempo .
Il tempo libero infatti, a suo avviso, costa meno di quello di un professionista del settore.

Anche se è palese che il tempo libero non abbia prezzo.

Persino i piccoli negozi, le librerie, i bar si sono resi inutili.
E’ di pochi giorni fa la notizia di una giornalista che ha deciso di fare l’esperimento di rifornirsi in tutto e per tutto su internet per gli acquisti di casa.

Il necessario per la sopravvivenza ma anche il superfluo.
Io non credo che il domani sia fatto di vini comprati su internet e bevuti a casa, di giornali su abbonamento e libri digitali.

L’uomo è inevitabilmente un animale sociale, anche se questo lo stiamo dimenticando.

Nella mia cittadina osservo ciò che leggo succedere nelle metropoli, i locali di proprietà degli esercenti sono sempre di meno e gli affitti sono alle stelle.

Non c’è da meravigliarsi che più di qualche negoziante installi dei distributori automatici, risparmiando così sulle spese di gestione e del personale.

Negli altri casi il personale è scontento, non si sente partecipe dell’attività e nella maggior parte dei casi tratta male l’avventore.

Ciò implica un calo degli affari, meno introiti e paghe sempre più da fame.

Un cane che si morde la coda.

Per me il Made in Italy non è design (esternalizzato), non è produttività (delocalizzata), non è cura artigianale (svolta da extracomunitari sottopagati).

Il Made in Italy è il valore aggiunto.

Valore aggiunto è il sorriso, la chiacchierata, le relazioni sociali disinteressate, come fine unico il piacere di vivere in una collettività e aiutarsi a vicenda.

Un valore che ho avuto la fortuna di vedere soprattutto nel sud Italia, il tanto vituperato meridione.

E’ sul valore aggiunto che si gioca tutto.

Il contatto umano.

Non un semplice customer care automatico.

Viceversa il nostro interagire, lavorare, vivere sarebbe ridotto a una mera sussistenza, ove ognuno di noi è intercambiabile, sostituibile.

Senza valore.
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Ascoltando:
Simple Minds, New Gold Dream (81/82/83/84), 1983