Immagini e idee lasciate decantare, scritte di getto durante notti insonni.
Spunti di ascolto e riflessione.
Un calderone mediatico che utilizza il mio punto di vista.
Una medicina: condividere è guarire.
domenica 15 novembre 2009
BLINDFOLD
Anni fa, sulla magnifica rubrica “Forse tutti non sanno che...”, lessi che gli Inuit hanno sviluppato nel corso dei secoli e prima di noi, una tradizione paradossalmente simile al nostro modo di vivere.
Fare di necessità virtù.
Visto che per parte dell’anno sono costretti ad una vita completamente al buio, si sono abituati a posizionare gli oggetti all’interno degli igloo in maniera metodica e univoca.
Sempre nello stesso punto.
Questo permette loro di trovare sempre ciò che cercano in totale assenza di luce, anche se non sono nella loro abitazione.
Ultimamente, parole come verità, indignazione e risveglio, sono state utilizzate da noi in maniera massiccia per ripetuti notiziari, opere cinematografiche e discussioni nella rete.
Come se per anni gran parte della popolazione fosse stata narcotizzata.
Credo che gran parte delle cose che ci circondano, siano specchio di questo atteggiamento cieco che abbiamo avuto nei confronti dell’ambiente, della politica e della comunicazione dei mezzi di massa.
Come ha illustrato ultimamente in maniera limpida Marco Paolini ne “I Miserabili”, per decenni ci siamo fatti abbindolare da apparecchi elettronici, oggetti di uso personale atti ad una gratificazione egoistica, che ci ha fatto perdere il gusto di saper vedere e partecipare.
Alla stessa maniera degli Inuit, abbiamo posizionato a portata di mano cose e persone che non necessitavano di molta luce per essere visti.
Individuati.
Se scegliamo forme di comunicazione semplici e superficiali, se posizioniamo emeriti imbecilli vicino a noi, dentro uno schermo televisivo oppure su un palco, abbiamo deciso di essere ciechi.
Nella cecità ci meritiamo di tutto, è il nostro scotto da pagare per una vita tranquilla, dove ogni cosa è al suo posto.
E’ usanza comune, utilizzare una sveglia per svegliarsi la mattina, ma dopo un po’ di tempo che la sveglia ha sempre lo stesso suono, cominciamo ad assuefarci.
La soluzione allora è quella di cambiarne la suoneria, oppure posizionarla in un luogo impossibile da raggiungere allungando semplicemente la mano.
In questo clima di risvegli e torpori, di immobilismo e indignazione, dovremmo cercare tutti di fare un po’ di disordine nella nostra vita, spostare oggetti e certezze.
Il minimo che ci potrebbe succedere è un allungamento delle braccia, in modo da poter cogliere oggetti e stimoli sempre più lontani.
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Ascoltando:
Morcheeba, Big Calm, 1998
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martedì 3 novembre 2009
PYRAMID SONG

La struttura gerarchica nel mondo del lavoro si è evoluta negli anni.
Inizialmente il modello piramidale ha segnato gran parte della storia dell’industria e dei servizi, dalla sua nascita fino anche ai giorni nostri.
Gli industriali del nordest sono innamorati di questo sistema.
Nella struttura piramidale una persona detiene il controllo totale dell’azienda, ogni decisione passa per la sua scrivania.
Tutto questo genera, nel diretto interessato, una quantità incredibile di stress, che egli sfoga sull’inerme famiglia, la segretaria, i transessuali, le feste in discoteca e le vacanze in paesi esotici.
Successivamente si è cominciato a capire che tale struttura non poteva perdurare, il boss in questione ha finalmente deciso di utilizzare la famosa parola “delegare”.
Vari capi progetto si occupano di settori diversi, anche se ciò non vieta al titolare di continuare ad amministrare completamente il lavoro dell’azienda, risparmiando le sfuriate solo a poche persone, che poi scaricano lo stress in maniera piramidale come sopra descritto.
A rimetterci, i soliti “paria”, gli impiegati fantozziani.
Le ultime forme di lavoro prevedono una struttura a rete, il net working, in cui gli intrecci e le interconnessioni tra le figure più disparate si interfacciano continuamente.
Probabilmente questo sistema, che fisicamente non conosco, porta a uno stress generalizzato.
Immagino un marasma di persone che perdono tutti tempo a capire chi sta sopra e sotto, invece che lavorare.
Recentemente ho letto un libro sull’organizzazione aziendale, materia che tocca il mio lavoro in maniera marginale, ma che mi è utile per capire i processi che regolano le relazioni in un sistema produttivo.
Mi è così tornato in mente la famosa propaganda di Beppe Grillo, quando richiamava all’attenzione il fatto che, formalmente, i parlamentari sono nostri dipendenti e noi siamo il governo.
Non sono un esperto di politica, il mio interesse verso la storia del mio paese è sorta troppo recentemente per potermi essere informato come vorrei.
Quello che stiamo vivendo ora in Italia è formalmente la fotocopia dei processi descritti da Chomsky tempo fa e fa Walter Lippmann a inizio secolo (http://www.marforio.org/appunti/storiaPedagogia0708/IL%20POTERE%20DEI%20MEDIA-CHOMSKY.doc).
Oggi in Italia, una rete di persone che comunica continuamente le proprie idee tramite il web, viene chiamata periodicamente a mettere una croce su una scheda.
Tale croce determinerà quale delle compagini politiche eleggerà il proprio leader, il quale sarà alla guida del nostro paese fino a fine legislazione o crollo del governo.
Possiamo osservare che l’attuale leader oggi chiede sempre più poteri, anche super poteri, cercando di condensare il tutto nelle mani di un’unica persona che deciderà tutto.
La conclusione che possiamo trarne è che la struttura del nostro governo evolve in maniera diametralmente opposta a quella del mondo del lavoro.
Strano modo di muoversi, per un presidente che di aziende dovrebbe capirne qualcosa.
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Ascoltando:
Radiohead, Amnesiac, 2001
sabato 17 ottobre 2009
COMFORTABLY NUMB
All’inizio questo blog costituiva semplicemente uno sfogo ai miei dubbi sentimentali, l’avevo considerato come una cura.
Sin da adolescente, infatti, ero solito sfogare ciò che mi esplodeva dentro tramite la scrittura.
A rileggerle, quelle righe confuse, trasudano di istintività e lacrime, molto lontane dai “pensieri lasciati a macerare” che state leggendo in questo momento.
Recentemente però il mio interesse per i mezzi di informazione si sta facendo quasi ossessione, il risultato è che le parole hanno poco tempo per sedimentare e finiscono subito sul web.
Ho appena finito di guardare, come ogni giovedì, la trasmissione “Anno Zero”.
Osservandola bene, non mi è sembrata tanto differente da tutti i salotti, pubblici e privati, che animano questo paese.
Piuttosto, ciò che la contraddistingue è una conduzione che non permette troppe sovrapposizioni di voci, urla e schiamazzi, ma piuttosto concede la parola a tutti senza filtro.
Mentre il post precedente parlava del modo di sentire la politica in Italia, una metafora calcistica di fazioni, oggi vorrei spostami a centrocampo.
Attualmente l’opposizione, non riuscendo a proporre un’alternativa credibile, continua a far pendere l’ago della bilancia verso il signor b.
Vedo un’Italia che sta attraversando una crisi alla stessa stregua di un qualsiasi paese che poteva “permettersi” una crisi.
Ci sono nazioni infatti che sono costantemente in crisi.
La maggioranza, qualunque sia, secondo me deve essere sostenuta.
Questo perché l’Italia e gli Italiani, a mio avviso, non riuscirebbero a reggere un cambio di governo.
L’economia soffocherebbe, di fronte al consueto periodo di stallo che serve all’insediamento.
Non dimentichiamo poi il classico momento, in cui il governo entrante dice che i conti pubblici erano falsati e che ci si dovrà rimboccare le maniche, il tutto in un clima di grande scontentezza.
Per tutta l’estate mi è balenata in mente la scena cardine del film “Il Divo”, quella del monologo di Servillo tanto per intenderci.
Per chi non l’avesse ancora visto, consiglio una breve ricerca su Youtube, giusto per avere un sunto dell’immagine prima repubblica italiana.
Ho cercato di immedesimarmi in un mio connazionale della prima repubblica.
Sono un italiano che suda in un’Italia che cresce a vista d’occhio, dove gli investimenti sono moltissimi perché il popolo è ancora da plasmare, da educare al “produci guadagna e compra”.
Carne fresca.
In cima alla piramide umana, c’è un potere centrale che narcotizza.
Un governo che vive di tangenti, di vacche grasse da mungere all’insaputa del popolo.
Un parlamento di politici che non rispetta le leggi, uomini che militano in gruppi e sette segrete che mettono in pericolo la sicurezza dello stato.
Non riesco neanche ad immaginarmi cosa succedesse sotto le coperte di questi personaggi, visto il clima che imperversava e ciò che è venuto alla luce nell’ultimo periodo.
Probabilmente la notizia di una escort a Palazzo Grazioli sarebbe apparsa come una marachella da nulla.
Insabbiata.
Forse la escort sarebbe stata insabbiata anche fisicamente.
Messa a tacere come le collusioni tra stato e mafia, i collegamenti tra i politici e le stragi.
Si stava bene, semplicemente perché la legge era incatenata e i processi venivano condotti dove voleva il governo.
La stampa rimaneva omertosa, oppure non parlava perché le informazioni venivano fatte sparire.
Le aziende non sapevano cosa volesse dire pagare le tasse e il nordest cresceva anche grazie a migliaia di piccole e medie frodi.
Tornando a questo attuale clima di rabbia, credo che avrebbe senso solo se quest’indignazione portasse a qualcosa.
Agire.
Come se questo sdegno servisse a farci camminare a testa alta dopo anni di umiliazioni.
Tanto varrebbe rimanere “piacevolmente insensibili”.
Avremmo un aspetto più dignitoso.
La rabbia da sola non serve a nulla, se non a renderci infelici.
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Ascoltando:
Pink Floyd, The Wall, 1979
giovedì 8 ottobre 2009
LOVE AND HATE
Dopo la notizia della bocciatura del lodo Alfano e le rispettive reazioni dei media, continuo a stupirmi della visione calcistica della politica in Italia.
Mi connetto a Facebook dove gli strilloni delle testate on-line vengono osannati o maledetti a seconda del colore della propria bandiera o degli ideali.
Come se votare PD o PDL ti facesse partecipe della vita politica.
Ci emozioniamo anche di fronte agli exit pool, alle decisioni in parlamento per un gusto tutto egocentrico.
La capacità di disegnare una croce, non ti da il potere ma l’illusione di partecipare ad un ideale.
Io ho sogni, non loro.
Io.
Nella politica e nella storia di questo paese non contiamo nulla, perché non siamo partecipi di questa democrazia che è sempre più vicina ad una dittatura che puzza di marcio da tutti i pori.
Perlomeno un regime assolutista dichiarato, farebbe bene a questa Italia caciarona, questa “Italia Cafonal” come la definirebbe D’Agostino, questa Italia in cui se compri venti quotidiani leggi venti notizie diverse.
C’è odio nelle strade, si urla fascisti e comunisti, avendo perso completamente il senso di queste parole.
Respiro rabbia e quando qualcuno non la pensa come te, viene additato come un ignorante, senza neanche lasciargli il tempo di parlare.
Non abbiamo più il tempo di ascoltare.
Indiscriminatamente a desta e a sinistra ci si arrabbia inutilmente, ognuno crede di avere la pietra filosofale ben stretta in mano.
Si citano frammenti di storia, decontestualizzandoli, perché la storia non la conosciamo più.
Si parla di libertà di stampa, urlandola in piazza, dimenticandoci che forse proprio oggi c’è una pluralità assoluta, libertà che durante gli anni di dominio di democrazia cristiana non si poteva neanche immaginare.
Poco mi importa se Emilio Fede seleziona solo le informazioni che gli interessano.
La televisione non è un mezzo di informazione e non lo è mai stato.
Rifletto, una persona che ha un ruolo istituzionale, forse dovrebbe essere lasciato in pace, congelando i processi che lo riguardano, per lasciargli il tempo di lavorare per lo stato.
C’è sempre tempo per giudicare qualcuno.
Poi ricordo che alla mia iscrizione all’Ordine ho dovuto dichiarare di non avere nessuna causa e processo pendenti, cosa che giudico assolutamente giusta.
Allora che senso ha che io debba rimanere integerrimo, mentre un parlamentare o il presidente del consiglio possono tranquillamente delinquere senza essere perseguiti?
Certo, qualcuno potrebbe dire che il parlamento è lo specchio del popolo e il popolo delinque, a destra e sinistra, ma io sono un sognatore e penso che un politico dovrebbe essere una persona perbene.
Sarà il mio rapporto così distaccato con lo sport, con il calcio, ma il tifo non fa per me.
Non ho mai avuto lo spirito di competizione, la voglia di urlare, di arrabbiarmi, di odiare e alimentare questo clima di ostilità, di cercare di imporre le proprie idee.
Cerco solo di ascoltare e aprire il cuore.
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Ascoltando:
Ryuichi Sakamoto, Sweet Revenge, 1994
domenica 20 settembre 2009
WHAT ARE THEIR NAMES PART 2

Presumibilmente Sgarbi deve avermi mosso qualcosa dentro lo stomaco, non si spiegherebbe altrimenti che, sul medesimo articolo, mi sono ritrovato a scrivere ben due post (vedi sotto).
Uno sarebbe risultato decisamente troppo prolisso.
In parole povere, all’interno dello stesso articolo, si proponeva di utilizzare i soldi destinati all’edificazione della nuova biblioteca (300.000.000 di eurini) per acquistare edifici storici e libri.
Secondo il critico “le biblioteche nuove come questa...sono come le moderne architetture religiose, senz’anima e vita rispetto alle chiese gotiche, rinascimentali e barocche” (Il Giornale, sabato 29 agosto 2009).
In parole povere, la proposta è di utilizzare edifici storici, per impedire di costruire edifici culturali asettici.
Una persona che utilizza il termine “moderno” per intendere “contemporaneo”, a mia modesta opinione non vale la pena di essere ascoltata, soprattutto se ad utilizzarlo è uno studioso che si fregia di titoli e onorificenze.
Probabilmente nessuno gli ha spiegato che per architettura moderna, come per l’arte, si intende il periodo storico compreso dal 1492 in poi.
All'università mi avrebbero crocifisso in sala mensa per un errore del genere.
Quindi con architettura moderna, sta tirando in ballo anche Andrea Palladio e la sua celebre villa Capra detta “La Rotonda”.
Pensando a queste parole, mi sembra quasi di sentire il vociare di due attempate signore di fronte al duomo del paese, con le borse della spesa: “Ma sa che è proprio brutta questa chiesa tutta moderna e di cemento?”
Magari il paese è Longarone e la chiesa è quella di Michelucci.
La bellezza di un edificio storico, non risiede nei suoi decori, nei suoi affreschi o nelle sculture che ospita, ma nel rigore e nella sacralità che riesce a trasmettere.
Questo è solo frutto dell’uso della luce, delle proporzioni e degli spazi.
Il resto è, appunto, decoro.
La chiesa di Michelucci potrà anche non essere paragonabile a San Pietro come maestosità, ma l’atmosfera che si respira quando si varca l’ingresso, è quella di trovarsi realmente nella casa di Dio.
Colgo il disappunto di Sgarbi e, seguendone il pensiero, faccio una provocazione per risolvere un problema inesistente.
Non sono stato in molte biblioteche, ma quella che in assoluto mi ha colpito di più è stata la Biblioteca Marciana di Venezia.
Tale edificio si trova a Venezia ed è attualmente occupato da un’altra istituzione, allora perché non costruirne uno identico a Milano?
Non hanno forse ricostruito il Teatro la Fenice identico a com’era e dov’era prima del tragico incendio?
Sarebbe semplicissimo, un rilievo preciso delle strutture murarie, del mobilio e poi via alla realizzazione.
Si potrebbe addirittura invecchiarne i muri artificialmente, forare il legno degli scaffali per simulare il lavoro dei tarli.
L’edificazione ad hoc una serie di edifici storici potrebbe essere pianificata, per fare contenti coloro che credono che la bellezza di un edificio risieda nella suo aspetto classicheggiante e consunto.
L’architettura come diceva Le Corbusier, è fatta per commuovere.
Non pretendo che tutta l’architettura debba commuovere, ma perlomeno sono d’accordo che gli edifici religiosi, o connessi alla cultura, abbiano l'obbligo di smuovere sentimenti.
Non so se un affresco di Giotto possa portare il fedele più vicino all’estasi del crocifisso di San Giovanni Rotondo, né se la basilica di Assisi sia più vicina a Dio di quella di Renzo Piano.
Se il diavolo si cela nei dettagli, Dio non so dove si celi in architettura.
Probabilmente nei volumi puri e semplici bagnati dalla luce dei silos di Le Corbusier.
Ai quali, se volete, come in una torta che si rispetti, possiamo aggiungere come guarnizione dei motivi, trame e decori, ma anche dipinti.
Buon appetito.
Amen.
martedì 15 settembre 2009
WHAT ARE THEIR NAMES - PART 1
Giorni fa, su “Il Giornale” ho trovato un articolo di Sgarbi, il quale chiedeva al ministro Bondi di fermare il progetto della biblioteca Europea di Milano firmato da Wilson.
Ora, su questo spazio ho più volte criticato sia il personaggio che il suo modo di porsi, a mio avviso così caricaturale da presentarsi in bilico tra il comico e il tragico.
Mi piacerebbe poter discorrere con lui in tranquillità, al di fuori degli schermi e schemi televisivi, per vedere dove finisce il personaggio e inizia la persona.
Per anni l’ho seguito, lo trasmettevano il pomeriggio quando tornavo a casa finite le lezioni al liceo.
Con la sua rubrica così pacata e il suo modo semplice di spiegare le cose, era persino vicino al modo di porsi di Philippe D’Averio.
Personaggio quest’ultimo che, senza urlare, riesce a farsi ascoltare.
Tornando all’articolo, ero curioso di capire quali fossero i suoi metodi di valutazione di un edificio, insomma con quali criteri aveva potuto misurare la qualità di un progetto.
I termini utilizzati per avvalorare la sua tesi sono stati i seguenti: “bruttezza”, “probabilmente un edificio funzionale ma mostruoso”, “una struttura banale e sciocca”, “incastri di volumi di concezione architettonica attardata come nei peggiori anni Settanta”.
Se dovessimo attenerci all’architettura classica, ma anche una piccola parte parte di quella contemporanea, potremmo disquisire su degli elementi architettonici.
Potremmo definire se la facciata è ben composta, se è equilibrata, se l’edificio si rapporta con l’esistente e quali elementi ha mutuato, rimescolandoli in una nuova composizione, più o meno gradevole.
Purtroppo gran parte dell’architettura contemporanea non è più costituita da queste componenti, quindi il giudizio del noto critico d’arte è oggi paragonabile a quello della nota casalinga di Voghera, magari appassionata lettrice di "bravacasa".
Tutto è demandato al “gusto”.
Se non ci sono più elementi con un nome proprio, se un edificio non può più essere descritto con i termini convenzionali, è impossibile costruire una critica credibile, elaborare una valutazione che tenga conto del bagaglio culturale di una persona.
Basta leggere qualche rivista di settore per capire che la critica in architettura oggi è praticamente morta.
Vi sono centinaia di periodici patinati che propongono gli stessi progetti a distanza di mesi l’uno dall’altro, semplicemente descrivendoli.
Oggi l’architettura stampata a mio avviso fa quasi più soldi di quella costruita.
Quando ero all’università, un mio docente si scaldava quando gli studenti non si ricordavano i nomi degli elementi architettonici.
Affermava che se un architetto non conosceva il significato di dado, metopa, trabeazione, era paragonabile a un chirurgo ignorante del nome e delle funzioni degli organi del corpo umano.
Non avrebbe potuto operare.
Oggi possiamo dire tranquillamente che nell’architettura contemporanea sono spariti gli organi, le ossa e anche i muscoli, ma è rimasta una splendida pelle.
Splendida splendente.
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Ascoltando:
David Crosby, If I Could Only Remember My Name..., 1971
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