martedì 7 giugno 2011

DREAMS

La campagna elettorale si è appena conclusa, lasciandomi l’amaro in bocca.
Forse mi ero aspettato troppo, i risultati sono stati infatti deludenti anche se, forse, una netta esclusione può rivelarsi meno dolorosa di uno scontato e sofferto ballottaggio.
E’ stata un’esperienza decisamente emozionante, gli stimoli non sono mai mancati, una autentica iniezione di adrenalina che ha attraversato il mio corpo come una scossa, donandomi forze e incentivi.
Questo anche se gli impegni si concentravano la sera, spesso dopo una dura giornata di lavoro.

Non ho vissuto questa esperienza come un sogno.

Ho già più volte scritto di aver vissuto la mia vita in modo irrazionale per troppi anni, adesso invece i sogni sono stati estratti dai cassetti e portati nei cassonetti.
Raccolta differenziata.
Le tappe salienti della mia vita, sino a ora le avevo saggiate adoperandomi in una serie di salti di qualità, azzardati o meno, privi di un allenamento metodico.
Senza misurare le forze.

Credevo che i sogni fossero l’unica speranza per immaginare un orizzonte nella nostra vita, scevra da ostacoli, muri, preconcetti: l’unico fuoco per disegnare una prospettiva.

Il sogno l’ho relegato a un “horror vacui”, un limbo nel quale si vaga anestetizzati, esibendo un mezzo sorriso sulle labbra.
Un miraggio che ci fa sperare nella lotteria, nel gratta e vinci, nella fortuna, nell’eredità, nella botta di culo di essere al posto giusto al momento giusto.

Io sono sempre al posto giusto al momento giusto, questo perché l’ho scelto personalmente, non le mille possibilità stocastiche.

Non è il mondo ad essere difficile, competitivo oppure colmo di ricatti e vizi, si presenta così a noi solo perché abbiamo il terrore di barattare i nostri sogni per la nostra vita.

Io ho scelto di non illudermi più, però non sono riuscito ancora a misurare le mie forze.
Sarebbe l’unico tassello che potrebbe sopprimere qualsiasi ipotetica delusione.
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Ascoltando:
The Cranberries, Everybody Else Is Doing It, So Why Can't We?, 1993

lunedì 25 aprile 2011

Vivo morto o X

A volte mi soffermo sui comportamenti delle persone, non sarò un sociologo ma mi piace osservare la gente.
Più raramente invece, osservo il mondo con l’occhio dell’urbanista, scrutando come i progetti condizionano i comportamenti umani, generando degrado sociale oppure nobilitazione.
“Architettura è politica” citava lo slogan, impresso su un quadernino di schizzi, che ho acquistato a una recente Biennale di Venezia, sottolineando che fare architettura è un atto sociale, politico.
Da piccolo consideravo la politica un qualcosa di complicato, contorto, un ingarbugliato labirinto di leggi, norme, codici incomprensibili.
Per anni mi sono attenuto a quello che diceva mio padre, il quale risultava sempre più chiaro dei giornalisti: “La politica è sangue e merda” mi diceva papà, citando l’antico adagio di Rino Formica.
Più tardi, ho cercato di colmare le mie lacune di storia contemporanea  con l’acquisto di quotidiani e parlando con le persone; devo ammettere che ho imparato più da chi non la pensava come me che da chi condivideva le mie idee.
Recentemente, complice il clima politico infuocato e la dilagante anti politica, ho condiviso questa percezione di impotenza di fronte alla classe dirigente.
Non credo che questa propensione sia conseguenza di un timore di schierarsi, di metterci la faccia.

Ogni giorno infatti incontro persone che ci mettono la faccia: anziani che urlano al bar, donne che si insultano al supermercato, cori da stadio.

Questa è la media dei dibattiti politici che interessano argomenti nazionali.

La dimensione civica sembra sia minore, piccola, una realtà innocua.
E’ solo nel periodo elettorale che, anche in comunità di poche migliaia di abitanti, vengono proiettate le cattive usanze nazionali.
Ci si mette la faccia solo a parole, perché sappiamo che il giorno dopo possiamo contraddirci, non  ci siamo cuciti una bandiera addosso, non ci siamo schierati.
Ecco, anche io non mi sono schierato, non mi sono cucito addosso una bandiera, non porto sulle spalle le problematiche nazionali che sono troppo pesanti per la mia schiena.
Sono entrato in un gruppo di lavoro, un orticello di idee, composto di persone con le quali discuto e condivido le visioni per la mia città, visioni e scenari lungimiranti, si auspica.
Nessun sogno: quest’anno ho deciso di sbarazzarmi dei sogni e piantare intenti.
Appoggio una persona che stimo, credo possa fare del bene per la mia città.
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Ascoltando:
Ligabue, Buon Compleanno Elvis, 1995

mercoledì 13 aprile 2011

SUPERSTITION

Dicono che le piramidi cominciarono a essere depredate dalle morti dei rispettivi faraoni, in barba a maledizioni e superstizioni.
E’ comprovato che l’Anfiteatro Flavio, dopo il declino dell’impero romano, fu adoperato come cava per materiali da costruzione: i romani impiegarono, infatti, pietre, rocchi e capitelli dell’edificio per le murature di alcuni edifici residenziali.
Sembrerebbe insomma che, passato lo splendore di una civiltà, i popoli vogliano subito sbarazzarsi dei simboli dello sfarzo, appropriandosi di frammenti di eternità da esporre nelle proprie abitazioni private.
Come trofei di una guerra.
Lo spoglio di edifici rappresentativi, ha quindi numerose radici storiche, si può ipotizzare che nell’era di internet, tale pratica verrà realizzata in tempi record.
Il periodo di imbarbarimento che può attraversare una società in declino, non è prevedibile e talvolta stupisce anche i più fantasiosi.
Oggi non possiamo immaginare cosa succederà ai monumenti dell’occidente, quando il suo predominio vacillerà, quando le sue religioni e i suoi simboli non avranno più senso per le popolazioni che vi abitano.

Ma non siamo sotto assedio: i nostri veri nemici siamo noi stessi.
Nella periferia di Marghera, su terreni polverosi, oggi sorgono cattedrali disabitate: sono i grandi stabilimenti dismessi di aziende, dai fasti gloriosi.
Alla stessa stregua di ciò che avveniva negli edifici religiosi, qui i culti del capitalismo e quello della produzione industriale si officiavano ogni giorno.
In pochi sanno che oggi, questi immense testimonianze di un passato nemmeno tanto remoto, vengono depredati di ogni materiale commerciabile e riutilizzabile.
Alla faccia dell’arte povera e delle energie rinnovabili.
Intere squadre di abusivi, con orari e turni simili a quelli degli stabilimenti attivi, ogni giorno entrano in queste aree e cominciano letteralmente a smontare questi edifici.
All'inizio prendono tutto ciò che può essere trasportato facilmente, di facile guadagno: tamponamenti e macchinari, come fossero decorazioni, stucchi e pietre preziose.
Lentamente si arriva all'osso del fabbricato e ne rimane solo la scheletrica struttura.

A decine di metri d’altezza, vengono sfilati dalle strutture i cavi elettrici per estrarne l’anima in rame, facilmente rivendibile.

Pochi euro dividono questi individui dalla vita alla morte: il rischio è altissimo, il guadagno minimo.

Certo non saranno edifici di particolare interesse religioso o politico, ma vedere queste immense cattedrali d’acciaio sottratte di ogni elemento ha un sapore di film western.
Nude, senza dignità e decoro di una sepoltura, esposte al pubblico ludibrio, spazzate dal vento, scarnificate da sciacalli, microrganismi e intemperie.

Ci siamo dimenticati di queste opere d’arte, tecnicamente e artisticamente superiori ai contemporanei capannoni in cemento prefabbricati.

Ciò che mi ha stupito di queste aree dismesse, è il rapporto tra pieni e vuoti.
Come le abitazioni rurali agricole, questi immensi lotti di terreno, sovradimensionati rispetto ai fabbricati, ci danno l’idea di come questi fabbricati fossero dotati di una cornice, un passepartout che li nobilitava.
La scelta della nostra civiltà è stata quella di demolirli, oppure lasciare che crollassero sotto il peso degli anni.

Con la loro sparizione, perderemo storie e riflessioni, errori e successi della nostra società, sarà una insanabile amnesia edilizia.
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Ascoltando:
Stevie Wonder, Talking Book, 1972

lunedì 14 marzo 2011

OUR HOUSE

Certi corsi universitari avevano un sapore diverso, riuscivano nell'intento di costringermi a osservare il mondo con un’ottica completamente differente.
Uno in particolare, frequentato negli gli ultimi anni di università, propose l’analisi, lo studio e la presentazione di un progetto per una porzione di città diffusa.
Nel caso particolare si trattava di un tratto stradale che collega la città di Padova con quella di Castelfranco, ma era un pretesto.
In realtà scoprii che, correndo lungo quella strada e immergendosi nell'entroterra, era possibile afferrare un frammento che, reiterato, formava la megalopoli padana.
Prima di quella fatidica lezione tenuta da Bernardo Secchi, non avevo ancora percepito il mio territorio in questa ottica così ampia e di respiro europeo.
Gli assistente del docente, due ragazzi neolaureati e molto svegli (ho scoperto successivamente che hanno fatto carriera universitaria), durante il corso esposero i loro filtri interpretativi, utilizzati per analizzare il territorio in questione.
Per loro era stato argomento di tesi.
Tra questi parametri, uno in particolare mi aveva colpito: il posizionamento e le tipologie di recinzione delle abitazioni poteva essere un valido argomento di analisi per un sistema urbano.
Raramente nel mio lavoro ho avuto l’occasione di progettare ambienti senza confini delineati, spesso si trattava di definire spazi conclusi in se stessi, delimitati da recinzioni, privati.
Credo che sia stata proprio la logica del lotto chiuso in se stesso a minare gli aspetti più peculiari delle nostre città: si è trasformato il territorio in quartieri e lottizzazioni, in cui l’unico barlume di creatività e fantasia è relegato alla scelta dei nomi delle strade.
Sono certo che alla vista di una nuova lottizzazione, molti illustri anziani si tocchino i gioielli di famiglia.
Non è solo una questione di interpretazione della libertà e della proprietà, se decidiamo di delimitare i nostri ambiti con reti e fili.
E' la mancanza di senso civico.
A volte mi piace passeggiare per la mia desolata città ed ogni volta mi accorgo sempre più, che non è una città concepita per pedoni.
La progettazione dei nuovi quartieri, tasselli senza logica appiccicati nei luoghi, ha sfigurato il concetto di città.
Dormitori completamente isolati, senza possibilità di interazione.
Sono cresciuto in palazzi dove si condividevano gli spazi comuni, dove c’era una griglia di quartiere, dove si sentivano le telefonate dei vicini di casa e gli sciacquoni che rumoreggiavano di notte, come esplosioni.
Oggi sarebbero spunti per fegati rovinati dall’odio e cause legali.
Forse sono state le siepi a rovinare le nostre città?
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Ascoltando:
Crosby, Stills, Nash & Young, Déjà vu, 1970

lunedì 7 febbraio 2011

PIAZZA GRANDE

Nella mia città sono iniziati i lavori per aggiungere ulteriori e inutili metri quadri alla piazza principale.

La moda di lastricare i centri cittadini, in Europa ha il suo punto di culmine negli anni ’90, l’Italia decise di non stare lì a guardare.

Si presero di mira microcentri dal delicato equilibrio compositivo, con piazzette spesso tagliati da sottili vie urbane, decidendo di pavimentarle, sovrapponendo un linguaggio contemporaneo, a organismi che già respiravano di vita propria.

Una piazza è uno degli organismi più delicati di una città, solo attraverso un’attenta lettura della sua geometria, delle proporzioni, dell’altezza degli edifici che la prospettano, degli accessi, delle funzioni che accoglie, si può capirla.

A volte il suo funzionamento è inspiegabile.

Il progetto di una piazza è uno dei temi più difficili da affrontare, perché coinvolge regole che vanno al di là delle componenti vitruviane, la giustapposizione di un sistema di edifici che vive e respira è certamente un esercizio complicato.

Non basta stendere piastre di pietra per far sorgere delle agorà, lo ha descritto in maniera limpida Camillo Sitte con un testo che possiamo classificare come dimenticato, stando alle mosse delle amministrazioni politiche e dei progettisti.

Le vuote e mute piazze che sono sorte nei paesi e nelle cittadine del mio desertico nordest, sembrano più prospettive di De Chirico che luoghi di aggregazione.

I progetti sono fatti in copia carbone:
- lastre di medie dimensioni di colore grigio (lo sporco non risalta e le gomme da masticare incollate si notano di meno);
- spazi vuoti (che non permettono alle persone di sostare);
- presenza di oggetti decorativi inutili (fontane, specchi d’acqua e altro per giustificarne il costo).

Preso atto che le uniche persone in Italia che riescono ancora a vivere la città sono gli extracomunitari (noi siamo in casa connessi ai social network oppure imbambolati di fronte alla televisione), l’assenza di luoghi dove poter sostare all’interno delle piazze contemporanee, evita che gli extracomunitari possano sedersi e chiacchierare.
Così, per impedire alle persone di socializzare liberamente, siamo costretti a consumare bevande negli anonimi bar, situati sotto i portici, ai margini di queste enormi piastre silenziose.

Alcune città si stanno persino tutelando, con leggi che impediscono il consumo di cibi negli spazi aperti.

Qualcuno dovrebbe spiegare alle amministrazioni, che le piazze non sono belle se sono costituite da bei materiali, ma se funzionano.

Il mancato funzionamento le trasforma in non-luoghi, alienanti e abbandonati.

Costosi ruderi adagiati in paesini troppo esili per sostenerli.

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Ascoltando:
Lucio Dalla, Piazza Grande, 1972

mercoledì 12 gennaio 2011

UNA CAREZZA IN UN PUGNO

Se devo pensare a una immagine forte dell’anno appena concluso, il fiero sguardo di Mario Monicelli potrebbe riassumere tutti i giorni trascorsi.
Non mi ritengo un appassionato di cinema, me ne sono sempre interessato con discontinuità e senza seguire un percorso, a differenza di altre mie passioni.
I film, per me, sono sempre stati semplicemente spesso un fatto emozionale, estetico.
Sin da piccolo, a casa mia, uno dei film più attesi era “Amici Miei”, atto primo ma anche il secondo.
Avevamo due televisori: quello “grande”, a colori, ovviamente era posizionato in sala, mentre il quattordici pollici, bianco e nero, era in cucina.
Dopo aver cenato, questo contemporaneo focolare ci riuniva, suddivisi tra un divano e due poltrone.

Io e mio fratello immersi nel fumo passivo: profumo di famiglia.

Di “Amici Miei” ho sempre apprezzato il cinismo, lo stesso cinismo che ritrovavo nei primi film di Verdone, altro regista gradito in casa.

Nei loro film si aggiravano personaggi meschini, spregevoli, cattivi.
Reali.

Si scherzava e ci si divertiva su argomenti che oggi risulterebbero oggetto di censura.
Ai tempi la forbice spostava tette, culi e volgarità in seconda serata, non all’ora di cena.
La meschinità e il cinismo sono così scomparsi dal piccolo e grande schermo.

Immagino la cattiveria, come un elemento presente in natura che ogni giorno deve riversarsi nel mondo.
Trovando uno sbarramento nei media, esonda nelle strade.
Ciechi sguardi, colmi di crudeltà gratuita.

MUOVITICRETINO!!!
GUARDAQUESTOIMBECILLECHESORPASSAMADOVECORRI!!!
QUANTOSTUPIDOE’QUESTOCHESIFERMAINROTONDA!!!

Imprecazioni, travasi di bile per qualunque imprevisto nel loro cieco percorso.
Malvagità senza nessun fine.
Nei film di Monicelli la cattiveria era un mezzo per divertire, avere privilegi, un satirico pretesto, mai un fine.

Quanto era innocuo Haber che tentava di distruggere la tomba di sua moglie Adelina, dopo che Adolfo Celi si era finto un ex amante.

Ci doveva volere bene Monicelli: immortalandola nei film, stava togliendo cattiveria alla nostra quotidianità.
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Ascoltando:
Adriano Celentano, Le Origini di Adriano vol 2, 1999