mercoledì 30 ottobre 2013

ISLANDS



















Il ricordo è ancora lucido come se fosse ieri.

Quel giorno, al termine di una breve lezione, il docente tentò di andare subito al sodo: era una persona di poche parole, molto pragmatica, impaziente e incapace di organizzare un corso in maniera organica.

Le sue lezioni erano composte di acetati che spesso avevano poco a che vedere con la materia, desiderava scardinare i meccanismi che i suoi colleghi ci avevano indottrinato, per ripartire con un’altra visione della progettazione.
Voleva insegnarci a leggere, prima di scrivere.

Se non avete mai avuto a che fare minimamente con il mondo accademico dell'architettura, anche indirettamente, sicuramente ignorerete il significato di "revisione".
Le "revisioni" sono quelle cose che ti facevano fare nottate sui fogli da disegno, con le dita impiastricciate di colla, tentando di rendere presentabile un progetto, sia su carta, che su dei "plastici concettuali".
Erano il motivo per cui, dopo aver dormito quattro ore, ti svegliavi per andare presto in università, cercavi l'aula che era stata assegnata all'insegnante e trovavi appeso alla porta dell'aula un foglietto su cui erano già magicamente comparsi dei nomi, anche se le porte dell'università le avevi aperte tu assieme al bidello.

Ho sempre avuto il sospetto che qualcuno si nascondesse di notte nei bagni per prenotarsi.

Il mio docente di urbanistica dava il meglio di sé in quei momenti di discussione collettiva che si svolgevano al termine delle lezioni.

Sì, perché il primo scalino da superare era l'esposizione del progetto, doveva essere fatta rigorosamente tramite proiettore, con acetati o diapositive, presentavi le tue scelte al microfono, di fronte a un centinaio di persone più o meno interessate ma, in quanto futuri architetti, sicuramente snob.

In quell'occasione i progetti tardavano ad arrivare, crampo dello scrittore.

Il docente quel giorno chiese perché nessuno avesse ancora portato qualche idea, almeno un germe sul quale ragionare assieme.
Alzai la mano e gli dissi che il tema di progettazione era veramente impegnativo per dei ragazzi di 21/22 anni, gettati allo sbaraglio nel proporre qualcosa per l'isola del Tronchetto di Venezia.
Ad architettura, impari principalmente due cose: ad aspettare e a non tracciare una linea se non hai dei riferimenti.
L'architetto teme l'horror vacui, ha sempre bisogno di un richiamo, un pretesto, un bagaglio iconografico per giustificare il suo operato.
Per ogni progetto ci si fiondava in biblioteca, la ricerca su internet non era ancora così diffusa, e si spulciava quello che c'era da sapere sul tema attingendo da libri e riviste di settore.
Nel caso specifico avevamo scoperto che con quella difficile tematica si erano confrontati i più grandi architetti e urbanisti internazionali, noi invece eravamo rimasti ai blocchi di partenza.
Andò dritto al sodo: se non cominciate a confrontarvi con il tema, non ne verrete mai fuori, portate qualcosa e cominciamo a ragionarci.
Non vidi mai dei capolavori o guizzi che mi potessero lasciare a bocca aperta, però affrontammo tutti il tema, ognuno a modo proprio, attaccando il colosso su tutti i fronti, fino a farlo diventare docile.
Piegandolo alle nostre intenzioni.
Ogni volta che mi capita di approcciarmi a qualcosa che mi sembra insormontabile, ogni volta in cui mi balena la sensazione che sia già stato detto tutto, ripenso a quel momento.
Quel momento in cui era sottinteso che ci saremmo confrontati con qualcosa su cui era già stato fatto molto e che difficilmente saremmo riusciti a fare di meglio.
L'importante era fare.
Era fondamentale dire qualcosa, anche un’apparente banalità, l’importanza risiedeva del percorso che ti avrebbe portato a formulare un pensiero, magari non inedito, però inattaccabile.
Capii insomma che l’abilità sta proprio in questo, saper mettere nello zaino ciò che serve, senza appesantirsi troppo e poi tentare la scalata.
In fondo, tutti abbiamo qualcosa da dire.
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Ascoltando:
King Crimson, Islands, 1971
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