Immagini e idee lasciate decantare, scritte di getto durante notti insonni.
Spunti di ascolto e riflessione.
Un calderone mediatico che utilizza il mio punto di vista.
Una medicina: condividere è guarire.
martedì 15 settembre 2009
WHAT ARE THEIR NAMES - PART 1
Giorni fa, su “Il Giornale” ho trovato un articolo di Sgarbi, il quale chiedeva al ministro Bondi di fermare il progetto della biblioteca Europea di Milano firmato da Wilson.
Ora, su questo spazio ho più volte criticato sia il personaggio che il suo modo di porsi, a mio avviso così caricaturale da presentarsi in bilico tra il comico e il tragico.
Mi piacerebbe poter discorrere con lui in tranquillità, al di fuori degli schermi e schemi televisivi, per vedere dove finisce il personaggio e inizia la persona.
Per anni l’ho seguito, lo trasmettevano il pomeriggio quando tornavo a casa finite le lezioni al liceo.
Con la sua rubrica così pacata e il suo modo semplice di spiegare le cose, era persino vicino al modo di porsi di Philippe D’Averio.
Personaggio quest’ultimo che, senza urlare, riesce a farsi ascoltare.
Tornando all’articolo, ero curioso di capire quali fossero i suoi metodi di valutazione di un edificio, insomma con quali criteri aveva potuto misurare la qualità di un progetto.
I termini utilizzati per avvalorare la sua tesi sono stati i seguenti: “bruttezza”, “probabilmente un edificio funzionale ma mostruoso”, “una struttura banale e sciocca”, “incastri di volumi di concezione architettonica attardata come nei peggiori anni Settanta”.
Se dovessimo attenerci all’architettura classica, ma anche una piccola parte parte di quella contemporanea, potremmo disquisire su degli elementi architettonici.
Potremmo definire se la facciata è ben composta, se è equilibrata, se l’edificio si rapporta con l’esistente e quali elementi ha mutuato, rimescolandoli in una nuova composizione, più o meno gradevole.
Purtroppo gran parte dell’architettura contemporanea non è più costituita da queste componenti, quindi il giudizio del noto critico d’arte è oggi paragonabile a quello della nota casalinga di Voghera, magari appassionata lettrice di "bravacasa".
Tutto è demandato al “gusto”.
Se non ci sono più elementi con un nome proprio, se un edificio non può più essere descritto con i termini convenzionali, è impossibile costruire una critica credibile, elaborare una valutazione che tenga conto del bagaglio culturale di una persona.
Basta leggere qualche rivista di settore per capire che la critica in architettura oggi è praticamente morta.
Vi sono centinaia di periodici patinati che propongono gli stessi progetti a distanza di mesi l’uno dall’altro, semplicemente descrivendoli.
Oggi l’architettura stampata a mio avviso fa quasi più soldi di quella costruita.
Quando ero all’università, un mio docente si scaldava quando gli studenti non si ricordavano i nomi degli elementi architettonici.
Affermava che se un architetto non conosceva il significato di dado, metopa, trabeazione, era paragonabile a un chirurgo ignorante del nome e delle funzioni degli organi del corpo umano.
Non avrebbe potuto operare.
Oggi possiamo dire tranquillamente che nell’architettura contemporanea sono spariti gli organi, le ossa e anche i muscoli, ma è rimasta una splendida pelle.
Splendida splendente.
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Ascoltando:
David Crosby, If I Could Only Remember My Name..., 1971
martedì 25 agosto 2009
A WARM PLACE
Pochi giorni fa, passeggiando per Roma, mi sono sentito addosso quella splendida sensazione di “calore familiare”, la stessa che hai dentro, quando sei nella tua città.
E’ strano perché era un sacco di tempo che non vi tornavo, e la sensazione si è sprigionata già dal secondo giorno di permanenza.
Premetto che quando è necessario fare il turista, non mi tiro indietro, girare così con una piantina in mano non è né un’onta, né un disonore per me, ma l’unico modo per conoscere meglio una complicata metropoli.
Quasi senza meta, a parte due visite obbligate, ho così vagato per la città eterna.
Era la prima volta in cui giravo liberamente per la capitale, libero dagli impedimenti di insegnanti o familiari, i quali a suo tempo avevano giustamente ostacolato la possibilità di vagare indipendentemente.
Troppo piccolo.
Gli occhi invece, questa volta maturi, non si sono soffermati un attimo, scorrevano da un edificio ad un altro.
Turbinii di ricordi e nozioni si sovrapponevano nella mia mente.
Figure di artisti e pontefici, nobili ed architetti che incontrandosi idearono quei capolavori.
A volte un colonnato era tamponato per diventare un edificio, ben disegnato ed armonico, in un’epoca in cui armonico fortunatamente non significava simmetrico, altre volte la traccia di un rudere diventava lo spunto per un nuovo progetto.
Oggi la ricucitura di ruderi è un concetto avulso dalla nostra cultura, sembra che qualsiasi opera del passato debba essere inguainata e messa sotto teca per non essere intaccata da progettisti e artisti contemporanei.
La storia è costellata di edifici trasformati, ampliati, demoliti e ricostruiti.
Palazzi mutilati e tamponati, sconsacrati e resi cristiani, nobilitati e spogliati di ogni decoro, a volte per mano di artisti, a volte per causa di selvaggi, i quali agivano in entrambi i versanti.
Dipinti di tutto rispetto furono così coperti di una mano di bianco e nascosti per sempre, a causa del costo eccessivo di una tela preparata.
Si cancellavano mirabili affreschi con una mano di calce per fare spazio a nuove raffigurazioni più fresche e moderne.
Mentre in passato il tutto era attuato, certo non senza polemiche, ma con una discreta semplicità, oggi studiosi in cerca di fama cercano l’occasione di mettere il becco su qualsiasi inezia sia da realizzare all’interno del nostro patrimonio artistico.
Sgarbi sembra sia sempre dietro l’angolo.
Una tendenza questa, che colpisce anche la nostra classe politica, la quale attribuisce sempre gli errori alle gestioni precedenti.
Non è un modo propositivo di relazionarsi con il passato.
Non siamo più capaci di agire per frammenti, di completare puzzle nei quali mancano dei pezzi.
Innioranti siammo.
Mi sembra quasi assurdo oggi, pensare che gli artisti di tutte le epoche si siano messi alla prova, nel completare composizioni di musica classica, edifici sacri, scenografie e dipinti di tutte le epoche, senza la paura di cimentarsi con il passato o con il proprio maestro.
Per ergerci, dovremmo avere l’umiltà di imparare a conoscere la storia e sederci sulle spalle di un gigante, al posto di fingere stature inesistenti, utilizzando come miseri ingredienti la nostra ombra in un pallido tramonto e un paio di scarpe col tacco.
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Ascoltando:
Nine Inch Nails, The Downward Spiral, 1994
giovedì 23 luglio 2009
FLUX + MUTABILITY
E’ passato un secolo da quando Adolf Loos definiva l’ornamento un delitto.
In campo architettonico questo segnava una rivoluzione, la progettazione minimale e modulare avrebbe marchiato gli anni a venire.
Come in ogni rivoluzione artistica che si rispetti, si cercava di sfuggire ad un passato caratterizzato da orpelli, vetrate colorate e forme naturalistiche, i progettisti erano sempre all’inseguimento di effimeri stili, i quali comunque cominciavano a vacillare e a perdere forza.
Per farla breve, il brutalismo in architettura, il design semplice e l’inseguimento di forme pure lecorbuseriane hanno a poco a poco ucciso generazioni di artigiani che si tramandavano saperi e conoscenze da centinaia d’anni.
La noia però è una costante dei giorni nostri e l’impeto dell’architettura barocca, decretato dalla necessità di stupire e provocare l’estasi nel fedele, si ripropone ai giorni nostri con un linguaggio diverso ma con le stesse aspettative.
Le trame intricate degli impianti planimetrici di Eisemann, le strutture antropomorfe di Calatrava, le forme spezzate degli edifici di Zaha Hadid e Steven Holl, sovrappongono geometrie ad altre geometrie con l’intento di lasciarci a bocca aperta.
Vi sono matrici che si ripetono, si accavallano, mutano per generare configurazioni complesse che la nostra mente non è più in grado di elaborare, se non attraverso processi stocastici.
Migliaia di cellule si replicano e mutano, come malattie incurabili, trasformandosi in arte agli occhi del fruitore contemporaneo.
Ultimamente mi è capitato in mano un progetto ampio per una città del Levante.
Sono quei progetti che le riviste di architettura non pubblicano, i direttori e le redazioni sono ancora legati all’urbanistica di Gregotti tutta cardo e decumano, altrimenti strizzando l’occhio alle ultime tendenze.
Sono fermamente convinto che una collettività, che ha una visione completamente diversa di noi del mondo, non abbia bisogno di città progettate con la carta millimetrata.
Se la nostra mente non riesce a concepire disegni articolati, il progetto si riduce all’abbozzo di un accampamento romano.
Trasporlo in Cina è uno stupro bello e buono.
Come è possibile disegnare una città su una griglia regolare, in un paese che per secoli ha rifiutato la linea dell’orizzonte come scelta di rappresentazione?
Mi incanta sognare che il masterplan che mi è capitato in mano, sia una forma di protesta, la necessità inconscia di disegnare paesaggi da parco giochi, luoghi dove la complessità è generata dal caos.
Nessuna regola apparente se non quella di un equilibrio instabile.
Forse una nuova forma di contrattacco consiste nel fuggire la ripetizione: progettare al limite della follia edifici fini a se stessi che non dialogano con gli altri.
Nascono piccole bomboniere dalle facciate che si sovrappongono, velature e decori replicati che ruotano e traslano per rendersi all’apparenza nuovi.
Si muovono e respirano assieme a chi utilizza queste macchine contorte.
Ci dimentichiamo che la bellezza della complessità è un lento sovrapporsi di vuoti e pieni, spazi e volumi, visuali e occlusioni, fatte di materiali che invecchiano in maniera non omogenea.
Altre piccole Mestre stanno nascendo in tutto il mondo, se un edificio da rivista patinata si costruisce vicino a baracche in India, dall’altra parte del pianeta un ponte viene costruito in un paese in cui mancano le altre infrastrutture.
Le contraddizioni sono frutto di una miope visione.
La nostra idea della progettazione articolata è limitata semplicemente perché non siamo in grado di immaginare tempistiche che vanno oltre la data della nostra morte.
Questo è un problema che in tutte le civiltà e generazioni precedenti alla nostra non si era mai posto.
Il cuore del nostro essere effimeri, è la paura di non avere abbastanza tempo per porre la nostra firma su questo capolavoro che è il mondo.
Come bambini svogliati in gita, imbrattiamo così un’opera d’arte che la nostra ignoranza ci impedisce di comprendere.
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Ascoltando:
David Sylvian & Holger Czukay, Flux + Mutability, 1989
mercoledì 15 luglio 2009
CARA
Grazie a un diverbio scoppiato in rete tra me e una mia amica, mi sono rimesso a ragionare sul tema del viaggio.
La partenza come necessità per spiccare il balzo.
Spesso sui mezzi di informazione si sente parlare di fuga di cervelli, di luminari che fuggono dall’Italia in cerca di un lavoro più decoroso.
Penso che per un ricercatore questo sia necessario, l’Italia in questo campo è un po’ il fanalino di coda.
Per quanto riguarda infinite altre professioni, ritengo che la rete globale abbia accorciato le distanze, tanto che essere a Voghera o New York sia quasi la stessa cosa.
Posso essere d’accordo sulla questione che rimanere nello stesso luogo, magari in un paesino di provincia, sia poco stimolante.
Ma il problema del poco stimolo è dentro noi, non nel luogo che ha invece stimolato generazioni intere.
Il piccolo Bastian leggeva il libro “La Storia Infinita” nella soffitta della sua scuola.
Con lo scorrere delle parole, delle pagine, a poco a poco gli si apriva un mondo nuovo, una storia completamente diversa dalle altre, in cui l’ultima pagina non significava la fine del sogno.
A volte mi sento come il piccolo personaggio principale di questa storia.
Fisicamente non ho mai viaggiato molto, anche se ho fatto molti chilometri guardando il mondo scorrere dai finestrini dai mezzi pubblici di questa megalopoli padana.
Data la mancanza di mezzi e di genuini stimoli per partire, ho sempre viaggiato molto con la mente.
Intere storie si aprivano nei libri che leggevo in spiaggia.
La strada del ritorno non era mai quella dell’andata.
Passeggiando per la stessa strada, dopo infinite volte, scovavo un dettaglio nuovo.
Tentavo di trovare nuovi colori e forme nel paesaggio che si proiettava dietro la finestra della mia camera.
Cercavo di conoscere gente nuova, angoli nuovi.
Sono giochi che faccio ancora.
A volte basta farsi uno sgambetto da soli, per osservare una cosa che era sotto il nostro naso da tempo.
Se è vero l’aforisma che ho trovato qualche giorno fa in rete “La felicità è una direzione e non un luogo”, non si parte per trovare qualcosa di nuovo.
Il tema è il viaggio e la meta.
Proseguendo nel ragionamento, la meta sarà felicità per poco tempo però, perché parte integrante del viaggio.
Appena diverrà “luogo” sorgeranno i problemi di prima.
Allora servirà un nuovo viaggio e una nuova meta.
Nuovi viaggi e nuove mete.
L’aforisma non specifica quale sia la direzione della felicità, ma semplicemente il fatto che andare in una direzione significhi essere felici.
Il mio è un viaggio continuo.
...ma so già cosa pensi, tu vorresti partire
come se andare lontano fosse uguale a morire...
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Ascoltando:
Lucio Dalla, Dalla, 1980
giovedì 18 giugno 2009
TEMPO
Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. E' per questo che l'uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione.
(Milan Kundera)
venerdì 5 giugno 2009
WEATHERED WALL
La prima è Poffabro, un borgo in provincia di Pordenone popolato da neanche duecento anime.
Nonostante la dimensione microscopica, grazie alla sua architettura vernacolare e spontanea, Poffabro viene visitata ogni fine settimana da molti turisti.
Passeggiando per le viuzze tentacolari che si sviluppano tra le abitazioni, si può percepire che la divisione tra il privato e il pubblico si fonde in un unico spazio comune, comunitario, spezzato da splendide e materiche facciate.
Forme pure stagliate nella roccia e nel legno.
La seconda località è stata Forni di Sopra, situata ben più in alto, ad una quota di quasi mille metri.
L’attinenza che ho trovato con Poffabro è la cura con cui hanno ricostruito, ristrutturato e ricucito un borgo con grande logicità e continuità storica.
Certo, non si può nascondere che qualche esempio di costruzione ignara del luogo e del contesto può essere individuata in entrambi i paesi, ma sono eccezioni sporadiche che non fanno altro che confermare la regola.
Le abitazioni sono realizzate con pochi elementi, riconoscibili.
Mi piace pensare che, come nell’architettura classica, oggi questi contemporanei progettisti si muovano tra dei paletti fissati dalle amministrazioni locali / regionali.
Con pochi elementi stabiliti si possono attuare delle modifiche all’interno dei canoni.
Nei casi qui sopra citati, il risultato ottenuto è un organismo gradevole, coerente e mai banale.
Queste sono le caratteristiche dell’architettura italiana, maggiormente apprezzate da noi stessi e dai turisti che ogni anno contribuiscono alla nostra economia.
Mi piacerebbe pensare a una nazione, la nostra, che si muove in questo senso.
Ponendo delle forti limitazioni formali ed estetiche nell’architettura non solo dei centri storici, potremmo ritrovare il filo rosso dell’arte classica, di cui siamo figli.
In un periodo incerto sotto tutti i punti di vista come quello attuale, a mio avviso sarebbe opportuno lasciarci alle spalle la visione romantica dell’arte come invenzione e tornare all’interpretazione dell’arte come artigianato.
Nella mia professione mi ritrovo ogni giorno a leggere norme che spiegano soprattutto come effettuare il calcolo dei metri cubi di un edificio, come sempre sono disposizioni partorite dopo un eccessivo e deregolamentato utilizzo del nostro territorio.
Sembra che l’abilità del professionista oggi stia nell'interpretare furbescamente tali norme per progettare al linite dei vincoli, allo stesso modo di un elefante che si muove in un negozio di lampadari.
Oggi il problema è diverso, le brutture del nostro paese sono sì frutto delle dimensioni sproporzionate dei mostri che infestano il nostro paese, ma anche di edifici decontestualizzati e deregolamentati.
Oggi mi piacerebbe cominciare a leggere che c’è qualcuno che decide per noi cos’è giusto e cos’è sbagliato.
Noi non siamo più in grado di farlo.
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Ascoltando:
Davis Sylvian, Brilliant Trees, 1984
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