Immagini e idee lasciate decantare, scritte di getto durante notti insonni.
Spunti di ascolto e riflessione.
Un calderone mediatico che utilizza il mio punto di vista.
Una medicina: condividere è guarire.
domenica 6 dicembre 2009
THE MODERN DANCE
Premetto che non sono mai stato un amante della fantascienza, anche se, da adolescente, la curiosità mi aveva spinto verso la biblioteca di famiglia.
L’alto mobile in legno scuro, oltre a contenere l’opera completa di Asimov, includeva anche la saga di Dune e decine di volumi di racconti ad opera dei più svariati autori.
Assaggiando di tutto un po’, come mi è solito fare, negli anni mi sono dotato di un’infarinatura letteraria che comprende qualche tomo dei succitati, oltre ad alcuni romanzi acquistato da me.
Ieri sera, decisamente provato da una settimana d’inferno, mi sono dedicato alla visione del capolavoro di Ridley Scott.
Erano trascorsi molti anni dall’ultima volta ma, come sempre, mi hanno colpito le scenografie oniriche e ricche di particolari, il solitario appartamento colmo di pupazzi di J. F. Sebastian e la costruzione dei personaggi che si muovono all’interno della pellicola.
Un’idea mi continuava a ronzare per la mente.
Continuavo a immedesimarmi in mio padre, a riflettere su cosa aveva significato per lui, grande amante del genere, l’avvento dei libri di Asimov, Dick e pellicole come queste, senza ombra di dubbio stimolanti.
Le idee , i sogni e i colori che bollivano nelle menti degli adolescenti degli anni ’50 dovevano essere molto simili alla cinematografia che ne è scaturita.
Gli scrittori immaginavano mondi nuovi, differenti forme di aggregazione sociale e struttura politica, flussi di individui che si muovevano liberamente nelle tre dimensioni, il tutto condito da una poetica decadente.
A mio parere, la debole fantascienza che riusciamo a malapena a realizzare oggi, è amaramente tangibile e sterile.
Romanzi e pellicole sono pervase da arcani complotti, antichi misteri spesso religiosi oppure, in alternativa, catastrofi imminenti e prossime.
Non sento più parlare di futuro.
E’ come se, avendo costruito troppo, ci fossimo privati della visione di un orizzonte.
Credo che l’architettura di Zaha Hadid, per quanto possa essere o no in sintonia con la sensibilità di chi la fruisce, sia quanto più vicino all’idea di futuro che la nostra società ha a disposizione.
Attraverso i suoi progetti, essa traccia solchi, trasformando ciò che precede le sue forme liquide e dinamiche, in immagini vetuste di un’epoca passata.
Come se la sua opera riuscisse a depositare un velo di polvere sugli edifici che la circondano.
A pensarci bene suscita rabbia il fatto che non si riesca a porre un traguardo da raggiungere, una sola immagine di futuro, che sposti l’orologio avanti di cinquant’anni anticipando gli eventi.
La mia paura è che la nostra immagine del futuro non sia molto dissimile da come vediamo il mondo oggi, con il risultato di lasciarci trascinare dalle tecnologie che vengono sviluppate.
Senza sognarle.
Con il senno di poi, possiamo tranquillamente asserire che pietre miliari come Nostradamus, Burgess e Verne ci avevano azzeccato.
Quale sarà il nostro contemporaneo visionario, chi potremo additare come profeta tra un secolo?
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Ascoltando:
Pere Ubu, The Modern Dance, 1978
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