Certi album musicali, alcune canzoni entrano nella tua vita come il comparire di un'allergia: il giorno prima ne sei immune e tutt'un tratto invece non riesci più a farne a meno.
Così, questa volta, mentre l'asfalto correva sotto di me, il sottofondo era quello di Alanis Morissette.
E’ difficile ricordare quante volte mi sono commosso di fronte a una canzone.
Ancora una volta, dalle casse usciva un arrangiamento così perfetto, sembrava che i musicisti si muovessero all'interno di una stanza il cui pavimento era cosparso di gusci d'uovo.
Da certe sovrapposizioni di note, è chiaramente possibile capire che tutto è in un equilibrio, nel quale basta spostare un'inezia, perché tutto crolli.
Come in un castello di carte.
In una scultura di Calder, ogni elemento si regge grazie a un oggetto complementare, che lo equilibra.
Delicate azioni / reazioni, non onde d'urto.
Prendendo atto che al mondo possono esistere persone in grado di piangere ed innamorarsi ascoltando brani dei Rage Against The Machine e gli MC5, mi sono chiesto: perché nella maggior parte dei casi colleghiamo le emozioni a opere d'arte delicate?
Qual'è il motivo per il quale una tenue canzone di Jeff Buckley, una vellutata scultura di Canova, una lieve fotografia di Stieglitz si legano nella nostra mente a intensi momenti carichi di sentimento?
Forse per contrastare le emozioni, di per sé così forti.
L’amore non accetta un contraltare, al massimo una timida spalla.
Quello che non mi riesco a spiegare è la ragione per la quale siamo così attratti e affascinati dalla delicatezza, dall'instabile bilanciamento e dalla precarietà nell’arte, quando poi cerchiamo nella nostra vita di allontanarci quotidianamente da tali sensazioni.
Probabilmente in questa crisi, l’arte diverrà una forma di espressione solida e monolitica, uno sgraziato dinosauro microcefalo che si farà spazio nella precarietà.
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Ascoltando:
Alanis Morissette, Alanis Unplugged, 1999
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