mercoledì 29 ottobre 2008

LOVELETTERS IN THE SAND

Mi è sempre piaciuto questo brano, ero piccolo e posavo la puntina del giradischi sul consunto vinile di casa.
La voce di Pat Boone risuonava nel soggiorno, cantando un elogio dell’effimero scrivere d’amore.

Le lettere d'amore sentono pesantemente il passare del tempo, degli eventi, fotografano dei momenti sottili come carta velina.

Ne ho scritte poche nella mia vita, ma quelle che ho scritto, erano rigate dalle mie lacrime.

Ultimamente una serie di coincidenze, pesantemente inspiegabili, mi sta facendo riflettere su una storia d'amore del passato.

Carboni diceva che le storie d'amore non finiscono mai.
A volte le canzoni più semplici sono le più efficaci.

C'è una persona a cui ho scritto molto, alcune lettere sono giunte a lei, altre sono rimaste qui, nei cassetti.

Talvolta penso che non ci sia nulla che io faccia, che pensi, ancora oggi, che non abbia traccia di lei.

Non è un pensiero fisso, né un’ossessione.

Sono anni che non la vedo, forse sta tutto qui il desiderio di sentirla, di parlarle.
Quando mi capita di rifletterci, sognante o illuso, segretamente credo che anche lei mi stia pensando.

A breve avrò l'occasione di poterla incontrare senza impedimenti di sorta, senza i rispettivi partners, senza figure del passato che potrebbero trasformare questo incontro in una patetica farsa.

Sono giorni che ragiono, rimugino, rifletto sul da farsi.

Non sto cercando nulla, solo di portare alla realtà una storia che oramai è solo nei ricordi.

La mente a volte fa brutti scherzi.
Comincia a rimescolare le carte, finché non ci si rende più conto se ciò che abbiamo vissuto sia stato reale o è tutto idealizzato.

Ho paura.
Ho paura di incontrarla.
Ho paura di incontrarla, trovarmi di fronte a lei e non avere nulla da dirle.

Si spezzerebbe così tutto ciò che ho religiosamente custodito dentro di me.
Una favola.

In una favola c’è bisogno di fare ordine?

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Ascoltando:
AA.VV., Brooklyn la compilation del ponte, 1985
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sabato 18 ottobre 2008

THINK (HORROR VACUI)

Ho sempre pensato che la rete globale fosse uno degli elementi più democratici al mondo, un capolavoro artistico senza corpo, costituito solo di componenti temporanei.
Lo stupore di fronte a questa ottava meraviglia del mondo è che in realtà non esiste.
Fisicamente è costituita da cablature, fibre ottiche, server, personal computer, ma ricondurla a una descrizione materiale ne ucciderebbe la intrinseca poesia.

All’inizio consideravo che internet non fosse un sistema democratico, questo perché era necessario avere delle conoscenze minime di utilizzo del personal computer, nozioni che non avevano tutti, le idee inoltre circolavano per comparti stagni, fatta esclusione per i newsgroup che sono sempre stati un potentissimo veicolo di idee.

Con l’avvento dei social networking, dei blog, di wikipedia sono riuscito a percepirne la completa democrazia.

Oggi tutti sanno utilizzare un personal computer e tutti sono in grado, con pochi click, di esprimere la propria opinione, di discutere e di essere smentiti.

La democrazia della rete è  dimostrata dal fatto che in paesi dove la sovranità popolare è calpestata, ci siano ampie restrizioni che la privano dell’essenza.

Un dubbio mi è sorto in questi giorni, è possibile che la diffusione di questo mezzo stia creando scompensi nelle nazioni, che questa democrazia incontrollata ci faccia perdere in senso del “giusto “ e dello “sbagliato”?

Ho ipotizzato persino che la crisi globale sia frutto della democrazia.

La mancanza di un poter centrale forte o di una “fattoria degli animali” Orwelliana,  partorisce teorie del grande complotto e antiteorie dell’antiteoria, controculture deviate che confluiscono nell’anticultura della cultura.

Follie, vaneggiamenti.

La democrazia, ha ucciso la mia libertà di pensiero.

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Ascoltando:
James Brown, Live at the Apollo, 1963
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martedì 14 ottobre 2008

AUTOBAHN

A volte, anche vagare per luoghi non piacevoli può essere stimolante.
Tutto questo sentire parlare di crisi mi ha fatto ipotizzare un occidente in completa decadenza.
Al peggio non c’è mai fine si dice, così ho provato a fantasticare su ciò che rimarrebbe dell’Italia allo sbando totale.
Una nazione occupata da altre etnie, con gli indigeni ridotti a chiedere l’elemosina ai bordi delle strade, vivere di espedienti per potersi sfamare e nutrire la propria famiglia.

A differenza di altre nazioni, dove lo sviluppo economico ha significato un miglioramento della qualità ambientale, in Italia così non è stato.
L’edificazione priva di pianificazione, i centri commerciali sorti in luoghi aleatori, le strade costruite dove le forze politiche ed economiche spingevano di più, ha generato solo caos.

In ciò che ci circonda non ci sarebbe nessuna traccia del nostro passato benessere, degli anni del miracolo Italiano.

Tutta la futilità di cui ci siamo circondati è deperibile, impalpabile, sottile e senza fondamenta.

Ogni grande civiltà ha lasciato dietro di se monumenti, grandi costruzioni, esempi di buon costruire.
Di civiltà.

Viaggiando sulle nostre strade ho trovato solo degrado intervallato da qualche sporadico esempio di amore per l’estetica.
Rari segnali per i posteri.

L’unica regione dove ho constatato amore per il costruire, armonia delle città e consapevolezza di ciò che è importante per vivere bene, è la Toscana.

In questa regione il territorio è stato preservato e le nuove edificazioni sono state pensate in armonia con esso.
L’industrializzazione selvaggia del nord, i palazzinari del centro Italia e l’abusivismo del sud non hanno toccato questo paradiso, non lo hanno trasfigurato in una giungla di stabilimenti vuoti, sgraziati e decadenti.

Piccionaie dove la gente non merita di vivere.

Non credo che sia una mia deformazione professionale, un frutto del mio percorso didattico.
Il progresso delle scoperte scientifiche e tecnologiche dovrebbe camminare mano nella mano con il decoro delle città.

Decoro che non riesco più a vedere.

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Ascoltando:
Kraftwerk, Autobahn, 1974
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sabato 11 ottobre 2008

GONE TO EARTH

Pochi giorni fa, discutendo con un mio collega riguardo le cure sul cancro, ero come al solito a fare la parte dell’avvocato del diavolo.
Lui portava la sua esperienza, mentre io ponevo dubbi assimilabili alle teorie sulla cospirazione, sull’industria farmaceutica, su chi si arricchisce con i malati terminali.
Mi ha decisamente colpito la sua conclusione che verteva sulla bontà della gente.

Io non penso che la collettività sia buona.

Immaginando il mondo come un sistema chiuso, dotato di forze interne che si svincolano da agenti esterni, credo che tutta l’energia che si spende tenda più al male che al bene.

Una mefistofelica entropia.

L’uomo di per sé è un organismo vivente che tende a sopraffare il prossimo, ad eliminare tutto ciò possa minacciare la sua idea di libertà.

All’ultima biennale di Architettura di Venezia, titolata “Architecture Beyond Building”, erano presentate delle città utopiche.
Metropoli pensate come edifici inseriti nel verde, dove l’uomo e gli animali cercano, a mio parere inutilmente, di convivere in una foresta di cemento e vegetazione selvaggia.

In qualsiasi micro comunità, il più cattivo, colui che impone le sue idee con la forza, lo “stronzo” insomma, prevale sul resto della società.
Sono arrivato a pensare che non è lo stress a generare persone dal carattere intrattabile, ma sono le persone intrattabili a scalare le vette.

Il mondo tende al male semplicemente perché gli esempi di rettitudine, ci sono stati sempre imposti con la forza.
Il nostro accettare sommessamente tali imposizioni, è stato sempre frutto dell’ignoranza, del terrore di una scomunica che sarebbe equivalsa all’esclusione dalla stessa società.

Il bene è un’imposizione, non una scelta naturale, istintiva.

Le domande che ci poniamo ogni giorno, i dubbi su ogni notizia che trasmettono in televisione non sono quindi frutto di psicosi, di “grillismi” o di timori da cospirazione.

Sono semplicemente frammenti del nostro istinto di sopravvivenza, annientato da anni di benessere.

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Ascoltando:
David Sylvian, Gone to Earth, 1986
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